I negozi stanno scomparendo, Confcommercio lancia l’allarme

Un quadro piuttosto cupo quello tratteggiato da Confcommercio nel suo ultimo studio "Demografia d’impresa nelle città italiane"

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Miriam Carraretto

Giornalista politico-economica

Esperienza ventennale come caporedattrice e giornalista, sia carta che web. Specializzata in politica, economia, società, green e scenari internazionali.

Moria di negozi, bar e alberghi invece resistono, soprattutto grazie alla presenza straniera. Un quadro piuttosto cupo quello tratteggiato da Confcommercio, che nel suo ultimo studio “Demografia d’impresa nelle città italiane” evidenzia come, in 10 anni, tra il 2012 e il 2022, in Italia siano spariti complessivamente oltre 99mila attività di commercio al dettaglio e 16mila ambulanti. Controtendenza, invece, per alberghi, bar e ristoranti, che crescono di +10.275 unità, grazie anche alla presenza straniera, che aumenta sia come numero di imprese (+44mila) sia come occupati (+107mila). Si riducono invece le attività e gli occupati italiani, rispettivamente di -138mila e -148mila.

Allarme desertificazione commerciale: i numeri

Il pluralismo distributivo, che Confcommercio non esita a definire “valore distintivo dell’Italia”, ha sempre funzionato bene durante le grandi crisi, da quella economico-finanziaria degli scorsi anni a quella dovuta alla pandemia all’ultima energetica innescata dalla guerra in Ucraina. Tuttavia, il rischio di desertificazione commerciale è reale per le nostre città.

Negli ultimi 10 anni, la densità commerciale nelle città italiane è passata in media da 9 a 7,3 negozi per 1.000 abitanti, facendo segnare un calo di quasi il 20%. Concentrando l’analisi sulle 120 città italiane medio-grandi, si nota come ad essere letteralmente spazzati via siano in particolare le attività commerciali nei centri storici rispetto al resto delle città, con il Sud caratterizzato però da una maggiore vivacità commerciale rispetto al Centro-Nord.

A fronte di questa riduzione, la popolazione residente, che ne costituisce il prevalente bacino di utenza, si è ridotta del -1,7%, sempre nei dieci anni considerati: -236mila abitanti circa, di cui la maggior parte esce dalle città nell’ultimo triennio.

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Come cambiano le città: i negozi che muoiono e quelli che crescono

Ciò che è evidente è che a cambiare, anche nei centri storici, è proprio il tessuto commerciale, con sempre meno negozi di beni tradizionali e sempre più servizi e tecnologia e attività collegate alla ristorazione.

Qualche esempio? Stanno rapidamente scomparendo librerie e negozi di giocattoli, ridotti del -31,5%, negozi di mobili e arredamento e ferramenta (-30,5%), ma anche di abbigliamento (-21,8%). Sempre più presenti invece farmacie (+12,6%), negozi di computer e telefonia (+10,8%), case in affitto per studenti o professionisti non stabili, o anche affitti turistici su Airbnb, Booking e altre piattaforme simili, che stanno vivendo un vero boom post Covid, con un +43,3%. Anche bar e ristoranti non se la cavano male, ma la crescita per loro è solo del +4%.

Un gruppo a sé è costituito poi dagli ambulanti, che svolgono una funzione fondamentale complementare all’offerta commerciale tradizionale. Complici le vendite online, la riduzione delle licenze è stata di ben il –20% nel decennio 2012-2022.

Settori ormai essenziali in termini di servizio e consumi di base sono, come visto, gli alimentari e i negozi di telefonia. In questi casi le riduzioni del numero di negozi o sono esigue oppure c’è addirittura una crescita. Le tabaccherie svolgono un ruolo di supporto fondamentale anche per il lato fiscale e amministrativo, oltre a offrire servizi che non sono direttamente legati alla vendita di beni.

Settori in forte riduzione, invece, che una volta facevano parte dei connotati delle città e ora ne sono estranei, sono i negozi di mobili, di carburanti, offerta che si è allontanata dai centri cittadini ed è stata soppiantata dalle grandi superfici di aggregazione fuori dalle città.

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Turismo: danno o vantaggio?

In questo scenario un ruolo essenziale lo gioca anche la crescita dell’offerta turistica, che cambia il volto di paesi e città portando a un processo di gentrificazione che, spesso, innesca a sua volta una trasformazione urbana che porta a un rialzo dei prezzi, degli affitti e in generale del costo della vita, anche in quartieri un tempo considerati “periferici”, ma diventati a un certo punto centri “alternativi” e attrattivi, riqualificati, che tornano alla vita, come il Pigneto a Roma, Isola a Milano, la Bolognina a Bologna, o Borgo Dora/Aurora a Torino, per fare qualche esempio.

La crescita delle attività di alloggio e ristorazione non compensa le riduzioni del commercio, ma modifica in misura determinante le caratteristiche dell’offerta nelle città e nell’economia in generale. “Complessivamente, la doppia crisi pandemica ed energetica sembra avere enfatizzato i trend di riduzione della densità commerciale già presenti prima di tali shock. L’entità del fenomeno non può che destare preoccupazione” denuncia Confcommercio.

Attività di alloggio e ristorazione, nel complesso crescenti e riassunti nella definizione di turismo, sono spesso però sottovalutati – scrive Confcommercio – per quanto riguarda la loro capacità di generare valore aggiunto anche attraverso l’attivazione di altri settori produttivi.

Va anche detto che la crescita dei servizi della ristorazione è segno di fenomeni socio-economici più complessi, come il ricorso sempre più diffuso al delivery per ordinare cibo a casa o in ufficio. “La quantificazione di questo processo di sostituzione è incerta, ma la sua dimensione è indiscutibilmente rilevante e crescente” scrive Confcommercio.

Per quanto riguarda la ristorazione, i dati indicano una qualche forma di migrazione dal bar tradizionale al bar con somministrazione, per contrastare la crisi pandemica anche attraverso modificazioni del codice di attività. Non si deve escludere, però, un processo di razionalizzazione dell’offerta anche nel settore dei bar, soprattutto nel Centro-Nord: la riduzione della numerosità dei bar in questa macro-area non risulta compensata dalla crescita del numero di ristoranti.

Boom di attività commerciali straniere

A compensare il disastro delle attività commerciali italiane, con raffiche di fallimenti anche di celebri brand, è però la crescita delle imprese gestite da titolari stranieri, che oggi ammontano al 14,4% del totale.

Ottimi risultati anche sociali, visto che così si crea lavoro per gli stranieri, tanto che persino i dati sull’occupazione totale parlano di una crescita decennale dovuta quasi completamente ai cittadini stranieri.

Cosa fare per evitare la moria di attività commerciali

Cosa fare, dunque? Per evitarne gli effetti più deleteri – prosegue l’associazione dei commercianti nella sua analisi – non c’è altra strada per il commercio che puntare su efficienza e produttività (del lavoro, per metro quadrato, ecc.), anche ripensandosi completamente, puntando su innovazione, ridefinizione della strategia e dell’offerta.

Ciò che emerge con chiarezza è che è sempre più fondamentale l’omnicanalità, cioè l’effettiva e funzionale gestione integrata e sinergica di tutti i punti di contatto tra azienda e clienti, in particolare sviluppando un canale online ben funzionante, a fronte di un negozio o di una catena capillarmente presente sul territorio. Perché, se è vero che proprio l’e-commerce è parte del problema, è anche, e soprattutto, motore della risoluzione di esso: chi vende anche online, infatti, ha registrato vendite passate da “appena” 16,6 miliardi nel 2015 a addirittura 48,1 miliardi nel 2022.

“Le politiche pubbliche dovrebbero prendere (finalmente) sul serio il concetto di esternalità positiva del commercio di prossimità, nel senso che esso produce un servizio (vivibilità) che non è (del tutto) incorporato nei prezzi di mercato (e, pertanto, se ne produce (produrrà) meno di quanto necessario)” conclude Confcommercio.