L’entrata in vigore del decreto firmato da Vladimir Putin, che impone ai “Paesi ostili” il pagamento del gas russo in rubli, ha fatto scattare l’allarme forniture in molti Paesi. Tra questi, l’Italia è in prima linea. Il 43% del gas che importiamo proviene infatti dalla Russia. L’intento del Governo è di scacciare lo spettro del blocco degli approvvigionamenti, e per farlo avrebbe preparato un “piano di emergenza”.
Si tratta di un programma in tre fasi che viene revisionato e valutato costantemente da un gruppo di esperti. Le ultime decisioni del Cremlino, però, rischiano di far scattare il passaggio alla fase d’allarme successiva. E, dall’altro lato della barricata, impone a Putin di evitare l’effetto boomerang nei confronti delle casse russe.
Un piano d’emergenza in tre step: ecco in cosa consiste
Dopo il decreto di Putin, il 26 febbraio l’amministrazione Draghi ha attivato lo “stato di preallarme” relativo alla crisi energetica. Si tratta del primo di tre step di pericolosità crescente previsti dal cosiddetto Piano di emergenza del sistema italiano del gas naturale. Al momento l’Italia di Draghi si troverebbe, per l’appunto, in preallarme (“early warning”). Se però le cose dovessero peggiorare, seguirebbe la fase di allarme vero e proprio (“warning”) e, ancora oltre, l’ultimo gradino di piena emergenza (“emergency”).
Finora lo stato di preallarme non ha avuto alcun effetto sulla quotidianità dei cittadini e delle imprese per quanto riguarda l’energia. La principale caratteristica dell'”early warning” è che il settore del gas (trasporto, distribuzione, stoccaggi, vendita) continui a operare a condizioni di mercato, seppur in allerta.
Le possibili contromisure, in caso di complicanze, prevedono un aumento delle importazioni di gas, la riduzione di domanda interna di gas attraverso lo stop dei contratti “interrompibili” di natura commerciale e l’utilizzo di combustibili alternativi negli impianti industriali.
Blocco delle forniture: cosa rischia davvero l’Italia
Nel caso in cui l’emergenza si aggravi, il sistema prevede il passaggio da preallarme ad allarme. La fase 2 scatta infatti con l’interruzione o la riduzione degli approvvigionamenti di gas e consente al ministero dello Sviluppo Economico di chiedere a Snam di ridurre le forniture destinate agli operatori di energia. Uno scenario critico che però si è imposto all’orizzonte dopo il diktat di Putin sul pagamento in rubli. Le contromisure ripercorrono le linee guida dello step precedente, dall’aumento delle importazioni all’uso di combustibili alternativi nelle industrie.
E arriviamo al temuto terzo step. L’emergenza scatta in caso di “un’alterazione significativa dell’approvvigionamento o interruzione delle forniture”. Uno scenario estremo, dove le condizioni di mercato sono sospese e il governo è libero di adottare misure più drastiche.
Tra queste spiccano il tetto all’utilizzo di gas per produrre energia elettrica che non sia destinata alla domanda interna, l’introduzione di soglie massime di temperatura per il riscaldamento in casa, il ricorso agli stoccaggi strategici e la richiesta di intervento di altri Paesi Ue (qui abbiamo spiegato cosa rischiano i cittadini di Germania e Italia in relazione al gas russo).
Occorre però precisare che il Governo ha per il momento smentito una discussione su questo tema all’ordine del giorno.
Gas, rubli e Occidente: il piano alternativo di Putin
Al centro della questione c’è l’ordine imposto da Putin a Gazprom e Banca centrale russa di studiare il modo per far pagare in rubli il gas venduto alle controparti occidentali. L’intento di Mosca è chiaro: aggirare le sanzioni imposte dall’Unione europea. La guerra in Ucraina ha però rivelato che nel mondo non ci sono soltanto Paesi ostili alla Russia. Tra questi molti sono acquirenti di gas russo, forti di contratti con termini e condizioni che prevedono pagamenti esclusivamente in euro o in dollari.
La mossa di Putin si rivelerebbe in poco tempo uno spiacevole boomerang economico. Da una parte i Paesi europei si troverebbero senza gas, ma dall’altra la Russia rinuncerebbe agli ingenti incassi garantiti dalla vendita di metano. Il presidente russo avrebbe però elaborato – anch’egli – un piano per evitare questo cortocircuito.
Tramite un decreto, il Cremlino imporrebbe una via alternativa che non altera i termini dei contratti. I grandi operatori occidentali, ad esempio Eni e Total, continuerebbero a inoltrare i loro pagamenti in euro o dollari alla banca russa Gazprombank. Quest’ultima provvederebbe a cambiare la valuta in rubli e a trasferirla nuovamente alle compagnie acquirenti, mettendole così in grado di girare i rubli alla società venditrice Gazprom.