Prima la pandemia Covid, poi la guerra in Ucraina e la conseguente crisi internazionale: i due capitoli più tragici del nostro tempo hanno mandato il mondo a gambe all’aria in tutti gli ambiti della vita e dell’economia. Tra questi figura anche l‘industria dei microchip, andata letteralmente in tilt a causa dell’allarmante carenza di materiali semiconduttori necessari per produrli.
La crisi dei chip minaccia di produrre effetti importanti nella nostra quotidianità, dai settori delle automobili, della tecnologia e della telefonia a quello di bancomat e carte di credito e dei documenti di riconoscimento come tessere sanitarie e carte d’identità elettroniche.
Bancomat, tessere e carte, ma anche auto: i settori a rischio
L’allarme semiconduttori ha già indotto il Governo a introdurre una nuova tessera sanitaria senza microchip. La portata della crisi dei chip è suggerita anche dalla decisione dell’Esecutivo di proseguire la produzione di tessere semplificate almeno fino al 2024. Ma per quanto riguarda bancomat, carte di credito e carte d’identità?
La carenza di materiali comincia a ostacolare (oscillando pericolosamente sul baratro dello stallo produttivo) anche l’emissione di carte d’identità elettroniche, il cui microchip contactless memorizza i dati personali e biometrici del titolare (foto e impronte digitali) e le informazioni che ne consentono l’identificazione online. Non solo: la stessa situazione riguarda anche l’emissione di nuove carte di credito e di debito.
Gli effetti devastanti coinvolgono anche il settore auto. Secondo AutoForecast Solutions, un fornitore di database di previsioni automobilistiche, nel 2022 negli Stati Uniti le grandi fabbriche hanno rinunciato a produrre oltre un milione di veicoli a causa della crisi dei semiconduttori. Solo nella seconda settimana di agosto, le vetture non assemblate sono state ben 180mila. A livello globale, da inizio anno mancano quasi 3 milioni di veicoli, destinati a salire a oltre 3,8 milioni entro dicembre.
Le contromosse di Europa e Italia
L’estrema difficoltà nel reperire materie prime fondamentali, come neon e palladio, ha spinto anche le istituzioni europee a intervenire. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha infatti approvato il cosiddetto “Chip Act”, che prevede investimenti tra i 43 e i 45 miliardi di euro fino al 2030 per la produzione europea di semiconduttori.
Seppur necessario, il piano europeo non svelerà i suoi primi effetti concreti prima di molti mesi, con la crisi del settore destinata con ogni probabilità ad allargarsi. Il Governo italiano, dal canto suo, ha messo a disposizione delle imprese produttrici di microchip fondi per oltre 700 milioni di euro, allo scopo di “incentivare la ricerca e l’innovazione” nel comparto.
La crisi dei microchip: cosa sta succedendo e perché
Rispetto a cinque anni fa, i tempi di consegna dei microchip utili per i sistemi di sicurezza bancaria informatica di sono allungati fino a toccare le 52 settimane, contro le 27 del periodo pre-pandemia. Praticamente il doppio. La crisi è iniziata nel 2020, quando le restrizioni anti-Covid hanno rallentato fino a decimare le consegne dei materiali. Soprattutto effettuate dalla Cina, che per via della politica “zero Covid” ha esacerbato una crisi già in corso.
A complicare la situazione dalle parti cinesi è anche l’inasprimento del conflitto con Taiwan. L’isola è infatti il più grande produttore al mondo di semiconduttori e microchip (oltre l’80% del totale globale), soprattutto per il silicio, e una piazza commerciale di primissimo ordine, dalla quale passa il 40% del mercato mondiale via mare.
La situazione internazionale è stata ulteriormente aggravata dal conflitto scatenato dalla Russia. Il perché è presto detto: l’Ucraina di Volodymyr Zelensky è uno dei principali esportatori di C4F6 e di neon, gas utili per l’incisione laser dei wafer di silicio con cui si costruiscono i chip. La Russia, per contro, esporta grandi quantità di palladio.