Inflazione in calo, scendono i prezzi in queste città. Ma i redditi sono più bassi del 2019

A gennaio scorso i prezzi sono scesi in queste città. Ad incidere è stato il diverso peso del turismo e l’aumento dei salari

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

La tendenza inflazionistica nelle principali città metropolitane ha subito un’inversione di rotta: nell’arco di un anno è passata dal quasi 10% a tassi negativi, indicando una deflazione.

Il precedente anno si è chiuso con un modesto +0,6%: nel corso del 2023, i prezzi al consumo hanno mostrato una crescita media del 5,7%, in netto contrasto con il +8,1% registrato nel 2022, anno che si era concluso a dicembre con un rialzo del +11,6%. Per quanto riguarda il 2023, Perugia ha segnato il maggior aumento dei prezzi, con un +1,7% tendenziale, seguita da Napoli con un aumento del +1,3%. Al contrario, a Bari e Palermo si è osservata una deflazione, con una diminuzione dei prezzi rispettivamente del -0,6% e del -0,5%.

I dati delle città

Ciò che colpisce maggiormente sono le disparità evidenti nei confronti tra gennaio e dicembre. Prendiamo ad esempio Palermo: a gennaio, l’inflazione era aumentata dell’11,7%, in linea con la media nazionale, ma a dicembre è crollata fino al -0,5%. E si riscontrano pattern simili in tutto il paese, seppur con variazioni leggermente più contenute: Milano è passata dal +10,5% al +1%, Roma da +8,7% a +0,9%, Torino da +10,3% a +0,7%, Napoli da +9,4% a +1,3%, Firenze da +9,7% a +0,4%, e così via. A fine anno, sono entrate in territorio negativo anche città come Ancona, Catanzaro e Potenza.

Tra i capoluoghi delle regioni e delle province autonome, così come tra i comuni non capoluoghi di regione con più di 150.000 abitanti, l’inflazione più elevata è stata registrata a Trieste (+1,7%), Bolzano e Perugia (+1,6% entrambe), mentre quella più contenuta si è registrata a Catania (-0,9%) e a Campobasso (-1,2%).

Secondo i dati forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), l’inflazione si è posizionata al di sopra del dato nazionale nelle cinque ripartizioni geografiche. Nel Centro, è rimasta stabile al +0,8%, mentre nel Nord-Est è aumentata da +0,7% a +0,8%, e nel Nord Ovest è diminuita da +0,8% a +0,7%. Al contrario, nel Sud è scesa da +0,6% a +0,3%, e nelle Isole è rimasta negativa, ampliando la flessione da -0,2% a -0,6%.

A gennaio 2024 si è osservato un lieve aumento a livello nazionale, e tra le principali città, l’inflazione più elevata è stata registrata a Napoli, con un tasso del 1,9%, più del doppio rispetto alla media nazionale (lo 0,8%). Tuttavia, quattro città hanno ancora registrato variazioni negative: Reggio Emilia (-0,4%), Campobasso (-0,7%), Ancona (-0,3%) e Modena (-0,2%).

Perché l’inflazione è in calo

Quello che è avvenuto riflette una serie di differenze tra le città, con diversi fattori in gioco, che vanno dalle infrastrutture di distribuzione alle variazioni nelle presenze turistiche. Tuttavia, la dinamica dei prezzi mostra dei pattern comuni. Il ritorno dall’inflazione è stato guidato soprattutto dall’andamento delle utenze domestiche, come le bollette, e dai prezzi degli alimentari.

Tuttavia, gli effetti di queste variazioni non si sono distribuiti uniformemente. Come sottolinea l’economista Fedele De Novellis, partner di Ref-Ricerche, questi prodotti hanno un impatto maggiore sulle fasce più deboli della popolazione, un aspetto che è stato costante durante tutto il periodo di aumento dei prezzi. Di conseguenza, l’aumento dei prezzi ha colpito maggiormente le città con una maggiore presenza di fasce economicamente più vulnerabili, in particolare al Sud.

Ciò ha comportato una flessione dei consumi, soprattutto per quanto riguarda i prodotti di base, che sono principalmente prodotti industriali. Tuttavia, questo ha anche avuto un impatto sul Nord, dove la produzione di tali beni è più concentrata, portando a una riduzione della produzione industriale.

Con il previsto avvicinarsi a una stabilizzazione verso il basso dei prezzi dell’energia e degli alimentari, ci si attende che anche le famiglie più vulnerabili possano recuperare potere d’acquisto, anche grazie a un aumento dei salari. Tuttavia, questa tendenza sarà differenziata territorialmente. Come sottolineato da De Novellis, il recupero dei salari avviene in modo disomogeneo: gli aumenti sono stati maggiori nei settori industriali, come chimica e metalmeccanica, prevalentemente presenti al Nord, mentre al Sud, dove predominano i settori dei servizi e dell’agricoltura, i salari faticano a riprendersi. Pertanto, un calo dei prezzi in queste circostanze non è sufficiente.

Alcune città stanno intraprendendo azioni per informare i cittadini sui costi della vita e, possibilmente, promuovere comportamenti responsabili. Da un anno e mezzo, Verona ha istituito 18 totem sul territorio comunale e sui canali social, dove vengono segnalati i prodotti alimentari con aumenti di prezzo e quelli con diminuzioni.

Ma l’inflazione continua a minare i redditi degli italiani

Nonostante il calo nelle città, l’inflazione ha vanificato la ripresa dei redditi degli italiani, portandoli al di sotto dei livelli pre-pandemici, con una perdita totale di oltre 6 miliardi di euro rispetto al 2019. Tra il 2019 e il 2023, in termini nominali, il reddito medio delle famiglie italiane è salito da poco più di 38.300 euro a oltre 43.800 euro all’anno, un incremento di oltre 5.500 euro. Tuttavia, questo aumento è puramente virtuale, poiché è stato annullato dall’incremento dei prezzi: al netto dell’inflazione, nel 2023 il reddito reale medio per famiglia è ancora di 254 euro (-0,7%) inferiore rispetto al 2019. Questa situazione è stata illustrata da una rielaborazione condotta da Cer e dall’Ufficio Economico Confesercenti sui redditi delle famiglie e sull’occupazione, basata sui dati Istat.

Il calo del reddito medio, osservato a livello nazionale, riflette tendenze geografiche diverse. Sette regioni presentano un bilancio positivo, soprattutto nel Nord Italia, con la Valle d’Aosta (+2.951 euro), la Lombardia (+1.930 euro), le province autonome di Trento (+1.639 euro) e Bolzano (+2.237 euro), il Veneto (+241 euro) e il Friuli-Venezia Giulia (+483 euro).

Tra le regioni che hanno superato l’inflazione, vi sono anche l’Umbria (+1.391 euro rispetto al 2019) e, nel Mezzogiorno, la Puglia (+150 euro) e la Basilicata, che registra un aumento del reddito medio reale di 2.907 euro in cinque anni, secondo solo alla Valle d’Aosta per incremento.

Tuttavia, la maggior parte dell’Italia rimane indietro: in tutte le altre regioni, il confronto tra il reddito medio reale del 2023 e quello del 2019 è negativo. Le variazioni vanno da -69 euro all’anno del Molise a -4.000 euro delle famiglie sarde, che subiscono il crollo più significativo. La Calabria rimane in fondo alla classifica, con un reddito medio reale delle famiglie di poco sotto i 29.000 euro all’anno.

Parallelamente, la ripresa dell’occupazione ha proseguito il suo corso: tra il 2019 e il 2023, il numero di lavoratori è aumentato da 23,1 milioni a 23,5 milioni. La Puglia si distingue positivamente, registrando un aumento di quasi 79.000 lavoratori in cinque anni, corrispondente al +6,5%. Seguono il Veneto (+75.000 lavoratori, +3,5%) e la Sicilia (+59.000, +4,4%). Solo quattro regioni hanno visto un declino nel numero di occupati rispetto al 2019: la Sardegna (-5.900 lavoratori, -1%), la Calabria (-9.800, -1,8%), il Molise (-2.800, -2,6%) e il Piemonte, con una perdita di oltre 15.000 occupati (-0,8%).