Il motore d’Europa si ferma: Germania in crisi nera

Un debito "nascosto", doppio di quello dichiarato dal cancelliere Scholz, ma anche calo della produzione industriale, inflazione e costi record dell'energia. La crisi tedesca non è solo economica, ma anche di identità

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La Germania sta perdendo il ruolo preminente in Europa come baluardo di Usa e Nato, in favore della Polonia (lo abbiamo spiegato qui). Sebbene il suo status di motore economico del Vecchio Continente sia ancora largamente condiviso, almeno a livello di status, la macchina tedesca comincia a dare chiari segni di ingolfamento.

Crisi economica che è sintomo di una più profonda crisi d’identità, in cui la parola di Berlino non dirime più questioni e contese fra gli Stati membri come ai tempi di Angela Merkel. La crisi energetica, il taglio delle ingenti forniture di gas russo, il fatto di essere l’approdo finale delle Nuove Vie della Seta cinesi (con attuazione stoppata dagli egemoni Stati Uniti) e di non essersi impegnata quanto potrebbe nel sostegno all’Ucraina: sono diversi i fattori da considerare. A partire dai settori dell’industria e del lavoro specializzato, precipitati a bassi mai visti.

Cosa sta succedendo all’economia tedesca

La Germania è in crisi e si percepisce in crisi. Secondo l’Istituto di studi economici tedesco (Ifo), le aziende del Paese ritengono di versare in condizioni uguali se non peggiori di quelle sperimentate durante la pandemia di Covid. Un’inchiesta del Die Zeit, il settimanale tedesco d’analisi politica forse più autorevole, svela gli aspetti oscuri di questo trend negativo che rischia di travolgere tutta la sfera d’influenza economica della Germania, Italia compresa. Il Centro per la ricerca economica europea (Zew) ha invece definito il Paese il “grande perdente” dell’economia globale. Forbes ci va giù ancora più pesante, usando l’epiteto storicamente nefasto di “malato d’Europa”. L’Istituto di credito per la ricostruzione (KfW) prevede “un’era di declino della prosperità”.

Il risultato è che la quarta economia del mondo è stata a un passo dalla recessione tecnica, con l’inflazione e costi dell’energia che hanno raggiunto livelli record. La stagnazione colpisce dritto al volto il benessere, gettando lunghe ombre sul finora imbattibile stato sociale tedesco. Oltre allo scopo classico, il welfare svolge anche un altro compito fondamentale in terra tedesca: mantiene sullo stesso piano socio-economico i vari Land che la compongono, appianando le divergenze. E le cose, arrivati a questo punto, potrebbero peggiorare in questo senso. L’Eurostat dipinge, da parte sua, uno scenario oltre ogni percezione, affermando che in Germania sono sempre meno le persone che consumano almeno un pasto completo al giorno.

Se n’è accorto anche il Fondo Monetario Internazionale, che ha aggiornato le previsioni di crescita per il 2023. Esito: le principali economie del mondo registrano tutte variazioni positive di Pil, con percentuali che vanno dal 5,2% della Cina all’1,8% degli Usa e all’1,5% della Russia. La Germania insegue a grande distanza, in ultima posizione, con appena lo 0,3%. Peggio anche del Regno Unito in piena crisi post-Brexit (0,4%). Il senso di tragedia è accresciuto a un fenomeno inedito per la Germania: il calo della produttività industriale.

La Germania è anche nella rete di esportazioni che coinvolge la Russia per “vie traverse”: ecco come riesce ad aggirare le sanzioni occidentali.

Il debito pubblico della Germania

La bozza di bilancio, presentata dal ministro delle Finanze alla Camera bassa del Parlamento tedesco (Bundestag) il 5 settembre, parla di un nuovo debito netto di 16,6 miliardi di euro per il 2024. A fronte di una spesa di 445,7 miliardi di euro, in calo rispetto ai 476,3 miliardi stimati per il 2023. Da qui la decisione di riattivare il freno all’indebitamento (il cosiddetto Schuldenbremse) o, meglio, a finanze pubbliche sostenibili a lungo termine, sancito dalla Costituzione e sospeso nel biennio 2020-2022.

La misura consente al governo tedesco di contrarre ogni anno solo una piccola quantità di nuovo debito, al fine di mantenere il rapporto debito/Pil al di sotto della fatidica soglia del 60% voluta dall’Ue. La Germania si scopre forse per la prima volta da Maastricht nostalgica della forza del marco tedesco. La Corte dei Conti tedesca (Bundesrechnungshof) ha apertamente accusato la cancelleria di Olaf Scholz di aver nascosto le reali condizioni finanziarie del Paese contravvenendo per giunta alle regole europee.

Intanto le banche cinesi “mangiano” la Russia: la mossa che cambia tutto.

Aziende in difficoltà

Dopo lo sconvolgimento causato dalla guerra d’Ucraina, il governo tedesco deve decidere la grande svolta del Paese dopo la finora insuperata Wende della caduta del Muro di Berlino. Ma non c’è una visione comune e non si riesce a raggiungere alcuna decisione condivisa. In questo caos le aziende tedesche tentano di salvarsi come possono dal pericolo della deindustrializzazione e dal mutamento della globalizzazione in un Occidente che vuole isolare la Russia. Colossi del calibro di Mercedes-Benz e Volkswagen sono troppo legati alla Cina per cambiare modello in corsa e quindi continuano sulla “vecchia strada”. Talmente legati e in difficoltà da indurre la seconda a chiedere aiuto a Pechino, col risultato che la cinese XPeng contribuirà alla costruzione delle vetture Volkswagen con motore elettrico direttamente nella Repubblica Popolare. Un altro colosso, Basf, il più grande gruppo chimico del mondo, ha invece visto crollare il fatturato del 25% e gli utili del 76%.

Le aziende straniere non scelgono più di investire in Germania, finora approdo privilegiato per via delle forti sovvenzioni (pagate dai contribuenti). La situazione è complicata in maniera inestricabile dall’eccessiva burocrazia, sia tedesca sia comunitaria europea. I grandi gruppi tedeschi denunciato che l’Ue lavora costantemente a nuovi regolamenti che paralizzano settori chiave come quello della siderurgia e dell’industria chimica. Il tutto condito da una rafforzata pressione fiscale (33esimo posto su 35 secondo il Centro per la ricerca economica europea di Mannheim) e dalla carenza di lavoratori specializzati, attratti da condizioni migliori oltre confine (in particolare in Cina, Arabia ed Emirati).

La parabola economica e geopolitica della Germania

Una verità nuda e cruda, per cominciare: la Germania non è del tutto padrona di elaborare una propria strategia nazionale. Non è nella sua totale disponibilità, ovviamente, perché ha sul proprio suolo 38.500 militari americani a ricordare chi è l’egemone, dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale e l’occupazione a oltranza durante e dopo la Guerra Fredda. Una banalità, che però ogni tanto va ribadita.

Come va ribadito il fatto che, a livello puramente strategico, la Germania non vuole cacciare nessun Paese dall’euro, diversamente dalla vulgata ormai tradizionale – soprattutto in Italia – sull’argomento. Berlino ci vuole nell’Eurozona perché vive di esportazioni e di reti commerciali attraverso le quali distribuire il suo enorme surplus produttivo. Le entrate sono vitali, perché garantiscono il mantenimento di un welfare tra i primi al mondo, e ora in crisi. In questo senso, la dismissione del marco per “punire e indebolire” il Paese e la conseguente adozione dell’euro sono state trasformate in punto di forza.

A un certo punto qualcosa nel meccanismo si è però inceppato. Berlino ha cominciato ad alzare la testa e la voce con Washington, dando due chiari segnali di non allineamento o, peggio, di apertura agli avversari strategici Russia e Cina:

  • il sostegno alla costruzione del gasdotto Nord Stream 1 e 2 (sabotato in maniera decisiva, come avevamo raccontato qui) che l’avrebbe legata ancor di più a Mosca;
  • l’intesa con Pechino sulla Belt & Road Initiative, la Nuova Via della Seta che unisce Oriente e Occidente traghettando flussi di merci dal cuore della Cina ad Amburgo.

Sul primo punto gli Usa sono intervenuti col bastone: nel gennaio 2019 l’ambasciatore americano in Germania, Richard Grenell, ha inviato lettere alle società coinvolte nella costruzione del Nord Stream 2 esortandole a smettere di lavorare al progetto e minacciandole di sanzioni. Sono seguite sanzioni parallele al colosso russo Gazprom e, dopo il febbario 2022, l’abbandono del progetto annunciato dal cancelliere Olaf Scholz. Se la dipendenza dalla Russia sembra essere stata allenata, seppur a caro prezzo, quella dalla Cina è invece sempre più stretta. Si consideri, ad esempio, che quasi il 70% del fabbisogno di terre rare indispensabili per le industrie energetica e informatica arriva dal gigante asiatico. Per non parlare di volume import-export e investimenti diretti, mai così alti.

Le conseguenze del riarmo della Germania

C’è poi da aggiungere alla lista anche un’altra mossa tedesca: il riarmo. La decisione di rinforzare un esercito di fatto inesistente dalla fine della Guerra Fredda, destinando alla Difesa il 2% Pil (oltre 100 miliardi di euro tramite un fondo speciale per la Bundeswehr), è stata innescata dall’invasione russa dell’Ucraina. Col dichiarato scopo di prepararsi a difendere anche militarmente il libero scambio in Europa, visto il fallimento della politica Wandel durch Handel, secondo la quale l’interdipendenza economica russo-tedesca avrebbe in qualche modo “democratizzato” il Cremlino.

La sicurezza e la prosperità garantite dagli Usa non sembravano più così scontate. Dall’altro lato i tedeschi sanno bene di non essere all’altezza dello standard di “esercito meglio equipaggiato d’Europa” tanto in voga nella propaganda. Come ha ad esempio dimostrato l’esercitazione Nato del dicembre 2022, in cui i tanto decantati carri armati tedeschi Puma si sono fermati quasi tutti per guasti tecnici. Perfino gli uffici federali che devono dirottare i fondi alle Forze Armate sono a corto di personale. Il risultato? Dei 102 miliardi di euro annunciati dal governo tedesco per la Difesa, ne sono stati stanziati soltanto 30 miliardi. Coi soldati che attendono ancora di essere pagati.

Le conseguenze per l’Italia

C’è sempre da chiederselo: quali sono le conseguenze di tutto questo per l’Italia? Il nostro Paese vive e agisce totalmente all’interno del sistema economico tedesco (a sua volta inserito nella sfera d’influenza statunitense), in quanto primo partner commerciale della Germania in ambito Ue. Gran parte del surplus commerciale tedesco è destinato a sud delle Alpi e, d’altro canto, le imprese italiane producono componentistica necessaria alle industrie tedesche. Facile intuire dunque come il morbo della crisi si trasmetta o si possa trasmettere alle industrie italiane più integrate nelle catene globali del valore e alle Regioni più dinamiche, soprattutto nel Nord Italia. L’export italiano appare destinato a frenare, a meno di un deciso miglioramento dello scenario internazionale.

La crisi del modello tedesco ci colpisce duro anche per un altro motivo: la Germania ha garantito il debito italiano con le istituzioni europee. E, quando la condizioni nostrane si sono mostrate in rapido declino, a tale scopo è stata destinata anche la nomina dell’autorevole Mario Draghi alla guida di Palazzo Chigi. Garanzia e insieme giustificazione per l’arrivo di soldi tedeschi a Roma. Segno di quanto la nostra manifattura, la seconda d’Europa, sia indispensabile alla galassia industriale tedesca. Lo stesso Recovery Fund è nato su esclusiva garanzia economica tedesca. E ora? Ora anche la ricca Germania si è scoperta e mostra in debito, un deficit nascosto che ha spinto la Commissione Ue a impedire l’utilizzo tedesco di fondi speciali per tagliare il disavanzo. Con l’Italia di conseguenza condannata a chiedere, risorse o tempo, ancora una volta.