Sembra sempre più vicino un accordo tra Israele e Hamas. Bisogna però intendersi: in quel “sembra” c’è tutto il carattere tragicamente effimero delle relazioni tra i due attori in guerra. L’eventuale intesa non porterà alla cessazione definitiva del conflitto, come dimostrano drammaticamente gli ultimi 80 anni di storia. Perché le due posizioni sono strategicamente inconciliabili e la miccia si riaccenderà rapidamente per mano degli inevitabili “scontenti”.
Ciononostante, fonti egiziane e dei fondamentalisti della Striscia confermano che si è molto vicini a un accordo sulla tregua e lo scambio di prigionieri. Un accordo che prevede tre fasi distinte e una fantomatica “fine della guerra” e che vedrà la luce con ogni probabilità all’inizio della prossima settimana. Intanto il massacro di Gaza continua.
Cosa prevede la proposta di accordo su tregua e ostaggi
Un primo passo verso quello che sarebbe il secondo accordo per una tregua in Medio Oriente, dopo il primo e finora unico raggiunto a novembre, è stato compiuto il 29 gennaio. Durante un vertice a Parigi tra Israele, Usa, Egitto e Qatar era stata infatti realizzata una bozza poi sottoposta all’attenzione di Hamas. A conferma della positività dell’operazione era giunto anche un altro indizio: l’annuncio di una visita a Tel Aviv sabato da parte del Segretario di Stato americano Antony Blinken. Sebbene, lo ribadiamo, nessun documento potrà colmare le distanze tra le parti in conflitto, sono emersi dettagli interessanti di momentanea intesa.
Fonti egiziane hanno riferito al quotidiano del Qatar Al-Arabi Al-Jadid che “all’inizio della prossima settimana sarà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas”. Fonti diplomatiche palestinesi hanno svelato a grandi linee il contenuto di questa potenziale intesa. Essa prevede tre fasi e include il rilascio di ostaggi israeliani e detenuti palestinesi:
- nella prima fase saranno rilasciati donne, bambini e anziani israeliani;
- nella seconda fase saranno liberati tutti i soldati dello Stato ebraico;
- nella terza fase ci sarà la restituzione dei morti.
Il giorno seguente il Washington Post ha svelato ulteriori dettagli dell’accordo, che consisterà in sei settimane di cessate il fuoco a Gaza con il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani ancora nella Striscia. Avrà luogo anche il rilascio di detenuti palestinesi, seguendo il medesimo schema di novembre: tre prigionieri per ogni ostaggio israeliano. Secondo il quotidiano statunitense, la proposta prevede anche un riposizionamento “non permanente” dell’esercito israeliano lontano dalle aree densamente popolate della Striscia e l’aumento degli aiuti umanitari all’enclave palestinese. La bozza di intesa include ulteriori pause di sei settimane nei combattimenti, durante i quali Israele riavrebbe indietro i corpi degli ostaggi uccisi da Hamas.
I capi di Hamas dovranno valutare a fondo la proposta tramite la mediazione dell’Egitto. Al momento non è chiaro come verranno scelti i detenuti palestinesi da liberare. Durante l’ultima tregua, Hamas ha accusato Israele di aver violato l’accordo sul rilascio dei prigionieri più anziani rinchiusi per un periodo considerevole, liberando invece un certo numero di giovani che erano stati arrestati durante i recenti scontri in Cisgiordania. Israele, da parte sua, ha accusato i nemici di aver violato l’accordo lanciando razzi in territorio ebraico.
La reale posizione di Hamas e Israele sulla guerra in Medio Oriente
Al di là della vetrina diplomatica, che ormai il mondo intero ha imparato a considerare con le dovute distanze, ci sono condizioni alle quali nessuna delle due parti è disposta a rinunciare. Hamas si è detto “aperto a discutere qualsiasi iniziativa o idea seria e pratica, a condizione che conduca a una cessazione completa dell’aggressione e garantisca il processo di accoglienza per il nostro popolo, la ricostruzione, la revoca dell’assedio e la realizzazione di un serio processo di scambio di prigionieri”. Tradotto: Israele dovrà rinunciare alla gestione di Gaza e di qualsiasi territorio rivendicato dai palestinesi, accettando di mantenere la pace.
La posizione di Hamas è condivisa anche dal Jihad Islamico (in Italia inspiegabilmente declinata al femminile come Jihad Islamica), con il capo Ziad Nahaleh a chiarire senza possibilità d’appello che la sua fazione non accetterà intese che prevedano altro da un “cessate il fuoco globale” e il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia. D’altronde l’obiettivo tattico dell’Iran, sostenitore dei due gruppi fondamentalisti, è stato ampiamente centrato: colpire Israele militarmente e nel suo status di grande potenza del Medio Oriente, dimostrandone la debolezza ai Paesi arabi che hanno firmato e stavano firmando gli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti diplomatici e istituzionali con Tel Aviv.
Israele, dal canto suo, mostra la medesima intransigenza. Ancora una volta a tuonare contro i terroristi di Gaza è il premier Benjamin Netanyahu. “Non ritireremo l’esercito dalla Striscia e non libereremo centinaia di detenuti“, ha dichiarato riferendosi alle indiscrezioni secondo cui la bozza di accordo mediata a Parigi preveda il rilascio di centinaia di prigionieri palestinesi in cambio degli ostaggi. “Questo non è un altro round, uno scambio di colpi, un’altra operazione, ma una vittoria completa“, ha poi tuonato parlando delle operazioni militari.
Le parole di Netanyahu sono giunte dopo l’altolà che gli ha imposto la destra radicale presente nel suo governo. Un’intesa con Hamas sarebbe “irresponsabile”, ha affermato senza mezzi termini il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che ha agitato lo spettro di una “spaccatura della maggioranza”.
Gli ostaggi in mano al Jihad Islamico: cos’è e i legami con Hamas
Anche se in Occidente molti non se ne sono accorti, alcuni ostaggi israeliani sono stati consegnati da Hamas agli alleati del Jihad Islamico palestinese. La formazione islamista, sunnita e filo-iraniana come Hamas, ha inoltre partecipato attivamente al maxi attacco del 7 ottobre e alle risposte belliche delle settimane successive. Ma chi sono questi altri fondamentalisti palestinesi e che rapporti intrattengono con i loro “colleghi”?
Il Jihad Islamico palestinese (Jip), in arabo Harakat al-Jihad al-Islami fi Falastin, ha sede a Damasco, in Siria, e opera tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Negli anni il gruppo è però riuscito anche a posizionarsi con uomini e quartier generali in grado di colpire Israele anche da Giordania e Libano. Fondata nel 1981 da Fathi Shaqaqi e Abd Al Aziz Awda, la Jip rappresenta una gemmazione della Fratellanza Musulmana attiva nel vicino Egitto. Le divergenze tra le due entità, tuttavia, emersero presto e la formazione di Shaqaqi intraprese la strada del militarismo, influenzato nel frattempo dall’Iran della Rivoluzione islamica guidata da Khomeini nel 1979. Proprio Teheran considera il Jip un partner più affidabile e “tranquillo” rispetto a Hamas per molteplici motivi. Innanzitutto la permanenza del gruppo in Siria ha consentito una maggiore vicinanza non solo fisica a Hezbollah e Iran, ben prima che Hamas entrasse a pieno titolo nella sfera di Teheran. Il Jihad Islamico è inoltre più manovrabile, in quando gode di minore consenso popolare rispetto ai “cugini” della Striscia.
L’alleanza tra Jip e Hamas arriva sulla base della comune ostilità agli Accordi di Oslo, con cui nel 1993 Yasser Arafat – primo presidente dell’Autorità nazionale palestinese dal 1996 al 2004 – voleva intraprendere un processo di pace con Israele. Shaqaqi unì dunque le forze con Hamas e altri otto gruppi afferenti all’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), ma il 26 ottobre 1995 venne ucciso a Malta, in circostanze mai chiarite. Alla guida del Jihad Islamico gli subentrò Ramadan Shalah, che restò al comando fino al 2018. In questi anni l’organizzazione lanciò diversi attacchi contro Israele, dalla Seconda Intifada (2000-2005) alla guerra dei missili dell’agosto 2022, passando per gli scontri di Gaza del 2012.
Al di là dell’alleanza di comodo contro il nemico comune, Hamas e Jihad Islamico non sono affatto amici. Anzi, nel corso della loro storia sono stati molto più numerosi le occasioni di scontro e rivalità, dettati soprattutto dalle divergenze ideologiche e dal diverso approccio alla causa palestinese. Come spiega l’ISPI Hamas, oltre a una funzione di contrapposizione bellica al nemico israeliano, a differenza del Jip aveva assunto fin dalla sua creazione una dimensione politica e sociale. Da qui la spiccata diffidenza reciproca, in virtù della quale i due gruppi si contendono il consenso della popolazione nei Territori palestinesi. Con il maxi attacco a Israele del 7 ottobre, le due formazioni islamiste hanno rinsaldato la loro collaborazione tattica.
Blitz in un ospedale a Jenin: israeliani travestiti da medici, uccisi tre terroristi
Con i negoziati in corso sullo sfondo, Israele non ha certo rallentato le proprie operazioni contro i palestinesi. Anzi, ha impresso una decisa accelerazione anche in Cisgiordania. Membri di un’unità d’élite israeliana, travestiti da medici e accompagnati da una donna dei servizi segreti in abiti palestinesi, hanno fatto irruzione in una stanza dell’ospedale Avicenna di Jenin e, in una manciata di minuti, hanno ucciso nei loro letti tre miliziani ricercati per terrorismo. Nessuno dei presenti si è accorto di nulla, perché per le esecuzioni sono state utilizzate pistole con il silenziatore. Quando è scattato l’allarme, gli agenti erano già rientrati in territorio israeliano, distante da Jenin pochi minuti di automobile.
L’obiettivo principale del blitz era Mohammed Jalamneh. Solo pochi giorni fa era comparso, incappucciato, in un video in cui si presentava come “leader e portavoce militare del battaglione di Jenin delle Brigate Ezzeidin al-Qassam“, il braccio armato di Hamas. Da alcuni giorni – assieme a due miliziani del Jihad Islamico, Mohammed e Basel Ghazawi – si nascondeva all’interno dell’ospedale nella convinzione di avervi trovato un riparo sicuro. Pia illusione, perché Jalamneh, secondo la radio militare, era seguito da tempo dall’intelligence. Le ultime informazioni disponibili indicavano che il miliziano aveva contatti col quartier generale di Hamas all’estero e che aveva trasferito armi e munizioni a cellule di combattenti. In particolare avrebbe “tratto ispirazione dalle stragi del 7 ottobre e progettava un’incursione simile in un insediamento ebraico in Cisgiordania”.
L’occasione era troppo ghiotta per Israele. In una riunione alla presenza del capo di Stato maggiore, Herzi Halevi, e del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, è stato deciso che non sarebbe stata sufficiente la cattura: era invece necessaria l’eliminazione. Sono stati proprio i membri dell’intelligence israeliana a localizzare il bersaglio: una stanza al terzo piano dell’ospedale. Le immagini di una telecamera di sicurezza dell’ospedale hanno mostrato frammenti della fase conclusiva del blitz. I membri dell’unità ebraica appaiono armati mentre indossano divise da personale medico e abiti femminili. Uno di essi porta con sé un seggiolino da bambino. Attraversano un corridoio della struttura sanitaria con una calma insospettabile, mentre alcuni compagni presidiano gli ingressi del corridoio per bloccare il possibile arrivo di persone indesiderate. Dieci minuti, secondo i media, sono bastati al commando per entrare, eliminare i tre sospetti nei loro letti e uscire indisturbati.
Il generale Halevi ha poi confermato che i tre progettavano “un grave attentato” e ha aggiunto: “Non vogliamo certo trasformare gli ospedali in zona di combattimento con degenti a destra, infermiere a sinistra e terroristi in mezzo. Ma non possiamo nemmeno accettare che gli ospedali, a Gaza come in Cisgiordania, diventino rifugi per i terroristi”. Il blitz ha suscitato inevitabile indignazione tra i palestinesi. “Si tratta di un crimine vile che non resterà senza risposta“, ha minacciato Hamas, affermando che “le forze della resistenza non sono intimidite dagli omicidi o dai crimini del nemico”.
Dopo Gaza toccherà alla Cisgiordania?
Il raid israeliano è stato sferrato dunque a Jenin, a lungo bastione della lotta armata palestinese contro Israele e frequente obiettivo dei raid dello Stato ebraico anche prima dell’inizio della guerra attuale. Le operazioni israeliane lì e in un campo profughi limitrofo hanno provocato vaste distruzioni e accresciuto la rabbia dei fondamentalisti.
La presa israeliana sulla Cisgiordania è ormai consolidata. Lo Stato ebraico la occupò, insieme alla Striscia di Gaza e Gerusalemme est, dopo il conflitto del 1967. Un’occupazione a tempo indeterminato, che minaccia l’escalation a causa della violenza sempre più efferata dei coloni e il massiccio dispiegamento di soldati e mezzi militari nelle ultime settimane. Negli insediamenti in Cisgiordania sono stanziati oltre mezzo milione di israeliani. I palestinesi rivendicano questi territori come parte del loro futuro Stato indipendente, ma l’andamento della guerra ne ha affievolito le speranze.
Israele allaga i tunnel di Hamas con acqua di mare
Intanto i combattimenti e i raid proseguono senza sosta nella Striscia. Le Idf israeliane colpiscono con maggiore forza e insistenza la martoriata Khan Yunis, in particolare le postazioni di Hamas da cui è partita una salva di razzi verso Tel Aviv. A Gaza la Mezzaluna Rossa ha denunciato che i soldati israeliani “hanno preso d’assalto il cortile anteriore dell’edificio dell’organizzazione e dell’ospedale Al-Amal”. I morti nella Striscia, sia civili sia militari, sfiorano ormai quota 27mila. L’esercito di Tel Aviv ha poi annunciato che è già stato avviato l’inizio dell’allagamento sistematico di diversi tunnel dei militanti di Hamas, utilizzando acqua di mare.
Secondo quanto riportato dal Times of Israel, diverse unità dello Stato ebraico e funzionari del ministero della Difesa hanno sviluppato congiuntamente “una serie di strumenti per convogliare acqua ad alto flusso” nei tunnel presenti nella Striscia di Gaza. Non tutti i cunicoli sotterranei sono però stati allagati. I militari israeliani sono riusciti nell’impresa collegando pompe e
tubi ai “pozzi del tunnel idonei all’obiettivo” e, prima di allagare i tunnel, sono stati effettuati controlli preventivi “professionali e completi”, compresa un’analisi del suolo e del sistema idrico nell’area, “al fine di garantire che le acque sotterranee non siano contaminate“. Le prerogative in guerra di chi stermina civili senza batter ciglio possono essere bizzose, per usare un eufemismo.
L’allagamento dei tunnel è inteso da Israele come un metodo per neutralizzare le capacità sotterranee di Hamas. Gli altri metodi consistono in “attacchi aerei, manovre sotterranee e operazioni speciali con mezzi tecnologici”.