Tutto ciò che riguarda Ucraina e Russia ci coglie sempre un po’ di sorpresa. Probabilmente perché conosciamo poco e capiamo ancora meno dell’interno di quel mondo così vicino eppure così lontano. La notizia del rimpasto pressoché totale del governo Zelesnky ci appare dunque come un fulmine a ciel sereno. Dopo i primi ministri che hanno annunciato le dimissioni, anche il titolare degli Esteri Dmytro Kuleba lascia l’incarico.
La tattica non è però estemporanea ma parte della strategia di Kiev, rinnovata all’indomani dell’incursione nell’oblast russo di Kursk. Mosca ha risposto all’umiliazione dell’occupazione con pesanti bombardamenti sulle simboliche Leopoli e Poltava, provocando diversi morti. Con conseguente controrisposta ucraina, che ha preso di mira un mercato nel Donetsk russificato e a Belgorod. L’improvvisa accelerata dei raid da ambo gli schieramenti è una mossa per scongiurare l’etichetta di “parte debole” in una corsa che sembra poter condurre a negoziati molto presto. Ma qual è il legame fra tutti questi avvenimenti?
Cosa c’è dietro le dimissioni di massa dei ministri ucraini
La politica ucraina, e in generale quella dell’intera galassia ex sovietica, segue traiettorie molto diverse dalle nostre. Da quelle parti non si è mai creduto al carattere universale dei diritti e della democrazia, definiti per quello che sono: una creatura occidentale. Nonostante adesso Kiev aspiri a finire sotto il duplice ombrello americano della Nato e dell’Unione europea, i compromessi sullo Stato di diritto continuano a incepparsi sistematicamente. Tant’è vero che i giornali ucraini parlavano da mesi, quasi quotidianamente, del prossimo rimpasto di governo voluto da Volodymyr Zelensky. Anticipando già l’uscita da Palazzo Mariinskji anche delle vicepremier Iryna Vereshchuk e Olha Stefanishyna, a dimostrazione della natura politica del messaggio rivolto a Usa e Ue già con l’incursione di Kursk. Vereshchuk e Stefanishyna sono state infatti in questi mesi tra le più convinte tessitrici del dialogo con l’Occidente a guida americana. Dall’altro lato della barricata, il Cremlino sottolinea di non aspettarsi un cambiamento nella politica bellica ucraina con la sostituzione del ministro Kuleba.
“Abbiamo bisogno di una nuova energia”, ha dichiarato il presidente ucraino annunciando il rinnovamento di “almeno il 50%” del suo esecutivo. Non si tratta però delle purghe e dei licenziamenti ai quali il Paese ci ha abituato in questi due anni e mezzo di guerra. I ministri e i funzionari allontanati dalla loro poltrona ne troveranno un’altra. Come nel caso di Kuleba, in lizza per diventare ambasciatore ucraino a Bruxelles. Come in fondo è successo tante volte anche negli Stati Uniti per via del cosiddetto spoils system, con segretari e capi di dipartimento che escono dalle porte dei ministeri per rientrare dalla finestra nelle vesti di contractor e consulenti privati. La linea diplomatica ucraina aggiorna se stessa, puntando su una maggiore intransigenza e sulle divisioni interne all’Ue tra Stati più e meno convinti di dover aumentare il supporto al Paese invaso.
L’auspicio di Kiev è innanzitutto propagandistico: vuole comunicare agli sponsor occidentali di aver inaugurato una nuova fase del suo conflitto. Una fase in cui è capace di umiliare il nemico, invadendone il territorio come non accadeva dalla Seconda Guerra Mondiale, e in cui potrebbe addirittura sconfiggerlo se americani ed europei acconsentissero compatti all’utilizzo delle armi a lungo raggio per colpire in profondità la Russia. Per suggerire la portata del potenziale cambiamento, l’Ucraina ha rilanciato uno scenario elaborato dall’Institute for the Study of War: se gli Stati Uniti revocassero le restrizioni sull’uso dei missili Atacms in tutta la Russia, finirebbero nel mirino 245 strutture militari della Federazione, comprese 16 basi aeree.
Convincere gli Usa, destabilizzare russi e filorussi: il piano di Kiev
Dato che ogni guerra nasce a monte da una decisione politica, il Paese invaso ha voluto dare un fondamento alla svolta che racconta. Kiev si professa in grado di proseguire l’occupazione nel saliente di Kursk e di continuare a reggere lo scudo contro l’avanzata russa nel Donbass. Nell’intento anche di destabilizzare l’opinione interna russa, percependola come pronta ad abbandonare la proverbiale fiducia nei confronti del presidente Vladimir Putin. Uno scenario decisamente più articolato e promettente della “semplice” speranza di distrarre il Cremlino dall’offensiva nel Donbass, già infrantasi contro la realtà dei fatti nei giorni immediatamente successivi all’attacco ucraino in terra russa.
Secondo l’Istituto Affari Internazionali, il rivolgimento politico in Ucraina passerà presto a una fase apparentemente confusa in cui alcune dimissioni potrebbero essere anche respinte. Il caos istituzionale sarà in questo senso costruito, come è ormai costume di un Paese che in questi due anni e mezzo di conflitto aperto ha utilizzato la comunicazione di guerra per celare evidenti defezioni democratiche. Dalle effettive purghe di Zelensky alla corruzione endemica degli uffici pubblici, dalla mobilitazione generale (18-60 anni) al reclutamento coatto di giovani per strada, dalla cancellazione a oltranza delle elezioni al bando della Chiesa ortodossa russa del Patriarcato di Mosca, la più diffusa nel Paese. Il tutto mentre migliaia di civili continuano a vivere e morire sotto le bombe, senza acqua o elettricità, chiedendo pane e pace come un secolo fa. Senza riferire nulla agli sponsor occidentali, i quali aumentano di conseguenza i già pressanti dubbi sul rinnovare il sostegno militare e finanziario a Kiev. Una mossa probabilmente parte di una strategia più ampia, che potrebbe nascondere altre tattiche a sorpresa in stile Kursk. Ricordando tuttavia che, dato il supporto di intelligence occidentale offerto per schermare le truppe ucraine agli occhi delle guardie di frontiera russe, l’incursione doveva essere per forza di cose nota agli Usa almeno nelle sua pianificazione.
Convincere gli Stati Uniti e le annesse province europee più ucraino-scettiche a far cadere il veto sulle armi a lungo raggio è poco meno di una speranza. Nel senso che l’Ucraina può fare concretamente poco o nulla, perché l’ultima parola spetta a Washington, fautrice di una guerra per procura che intende mantenere a bassa intensità. Nell’annunciare gli ennesimi pacchetti di aiuti da miliardi di dollari, gli Usa tradiscono in realtà l’interesse contrario: vogliono fornire l’assistenza necessaria a tenere in vita la resistenza contro i russi, senza consentire alcun salto di qualità verso la guerra simmetrica. Questo perché oltreoceano si vuole una Russia sconfitta ma non umiliata, con la quale sedersi al più presto al tavolo dei negoziati senza che il vantaggio nemico sia evidente come sul terreno.
Il piano di escalation management in Ucraina
La postura statunitense è il motore principale del cambiamento ucraino. L’amministrazione Biden ha più volte definito il suo approccio alla guerra russo-ucraina come un “navigare a vista”, il che implica che la gestione dell’escalation è “un processo dinamico e interattivo che si estende nel tempo” e consente ai leader di valutare i cambiamenti nelle fila dell’avversario. Secondo il Segretario di Stato, Antony Blinken, il “segno distintivo” della posizione degli Usa sull’Ucraina è quello di adattarsi e modificarsi a seconda delle necessità. “Così come è cambiato l’approccio russo, anche noi ci siamo adattati e modificati, e sono fiducioso che continueremo a farlo”. A Washington la chiamano escalation management.
Il problema è che il Cremlino non sembra aver cambiato significativamente le sue strategie né in termini di aggressione né di escalation. Gli obiettivi russi sono sempre rimasti gli stessi: distruggere la sovranità ucraina e ottenere la totale neutralità del Paese. Anche i bombardamenti su vasta scala, gli attacchi di fanteria tritacarne e le diffuse violazioni dei diritti umani, sperimentati per la prima volta in Cecenia e poi applicati in Ucraina a Bucha e Bakhmut, non si sono evoluti molto. Ciò che è cambiato è invece il modo in cui gli Stati Uniti ora valutano questa aggressione, mutando la postura degli apparati sull’opportunità di dialogare con Mosca oppure intervenire con la forza. Si tratta comunque di un cambiamento di atteggiamento estremamente lento, esitante quanto gli aiuti militari a Kiev, che pongono gli Stati Uniti in una posizione reattiva, non proattiva.
Nel frattempo sia a Kiev sia a Washington si cercano segnali propizi della debolezza russa. Gli analisti più ottimisti studiano le immagini satellitari e concludono che la Russia non ha concentrato abbastanza forze vicino a Kharkiv per sfondare le principali linee di difesa e catturare la seconda città d’Ucraina. Le tattiche russe tuttavia differiscono dalla logica militare occidentale. Non si tratta di raggiungere rapidamente gli obiettivi pagando un prezzo minimo. Il popolo della Federazione è il popolo di un impero e, anche se ci sembra fuori dal mondo, è predisposto ad affrontare tutti i sacrifici necessari alla gloria del suo Paese. La guerra di logoramento avvantaggia chi possiede più risorse, cioè la Russia.
Come Mosca, anche Washington vuole evitare l’escalation incontrollata. Da qui la gestione schizofrenica della Casa Bianca, che utilizza il cosiddetto doppio standard a seconda del fronte bellico. Gli Stati Uniti non hanno proibito le consegne di armi a Israele quando quest’ultimo ha attaccato e continua ad attaccare obiettivi civili a Gaza e in Cisgiordania, come non si sono opposti alla dichiarazione della Corte penale internazionale sull’emissione di un mandato di arresto per Benjamin Netanyahu. Spostandosi sul fronte ucraino, però, gli Usa hanno scelto di limitare l’uso da parte di Kiev di armi militari statunitensi per attaccare obiettivi militari in territorio russo. Paese che vai, nemico che trovi.