L’intransigenza di Israele non deve sorprendere. L’inaccettabile tragedia umana dei civili uccisi a Gaza non è che il riflesso di un’ideologia imperialista che mira al controllo di un territorio. Un territorio assegnato allo Stato ebraico, secondo la dottrina sionista, dai testi sacri e dalla storia. Un territorio che si estende dal Mediterraneo alla Valle del Giordano, e che bisogna conquistare e difendere a ogni costo.
È grossomodo questo il messaggio lanciato dal premier Benjamin Netanyahu al mondo intero. Il piano per ricostituire il “grande Israele”, con tanto di mappa e conferenza per illustrarla, passa dalla presa di Gaza e Cisgiordania e dalla costruzione di un enorme muro al confine con la Giordania.
Il muro al confine fra Israele e Giordania
Mentre la Giordania era impegnata nelle elezioni che hanno certificato il primato del partito di opposizione islamista (il Fronte d’Azione Islamica, il braccio politico dei Fratelli Musulmani), dall’altro lato della frontiera Netanyahu ribadiva un suo vecchio progetto: costruire un muro lungo tutto il confine. Non si contano più le volte in cui il premier israeliano ha promesso di farlo nell’ultimo decennio, a suo dire per “proteggere il Paese”. L’eccessivo costo, stimato in decine di miliardi di dollari, e le ripercussioni geopolitiche ne hanno sempre frenato i propositi, ma la guerra in corso contro Hamas, Hezbollah e Houthi potrebbe ridare nuova linfa al piano.
“Abbiamo eretto una barriera sul nostro confine meridionale con l’Egitto e impedito l’infiltrazione da lì in Israele”, ha affermato Netanyahu. “Abbiamo così fermato più di un milione di infiltrati dall’Africa, che avrebbero distrutto il nostro Paese. Ora erigeremo una recinzione sul nostro confine orientale con la Giordania e ci assicureremo che non ci siano infiltrazioni da lì“, ha aggiunto. Eppure di fatto la Giordania è un alleato di Israele. Come si spiega allora il progetto del muro?
Come ricordato da The Times of Israel, il primo ministro ha rilasciato queste dichiarazioni il giorno dopo i violenti scontri scoppiati tra gruppi di migranti eritrei nel sud di Tel Aviv. Decine di questi sono stati ricoverati in ospedale dopo che la polizia ha risposto aprendo il fuoco. La maggior parte dei migranti africani è arrivata in Israele attraverso l’Egitto nel 2007-2012, prima che lo Stato ebraico costruisse una barriera lungo il confine, nel deserto. Da allora, sostiene il governo, “ne sono arrivati sempre meno”. Netanyahu ha quindi deciso di lanciare un muro similare anche lungo la frontiera con la Giordania, ordinando all’esercito e alla Difesa di iniziarne la pianificazione nel 2012. Non solo: il premier aveva pubblicizzato in gran pompa l’inaugurazione dei lavori di un tratto di recinzione dotato di sensori sul confine meridionale nel 2015, annunciando l’anno seguente che intendeva “circondare l’intero Stato” con la barriera. All’inizio dell’estate, anche il ministro Yoav Gallant aveva rilanciato il progetto. Con una nuova motivazione: “Le organizzazioni terroristiche hanno individuato la Cisgiordania come un punto debole e vi hanno indirizzato molte risorse allo scopo di compiere attacchi. Per questo motivo, guardando al futuro, vogliamo erigere una barriera anche al confine con la Giordania”.
Lungo il confine di 309 chilometri che la Giordania condivide con Israele e la Cisgiordania c’è già una vecchia barriera, secondo funzionari militari più che sufficiente a impedire la maggior parte dei tentativi di contrabbando di armi. Un tratto di 30 chilometri, vicino alla città più meridionale di Eilat e al nuovo aeroporto internazionale di Ramon, è stato rinforzato in modo simile ai muri al confine con Egitto e Striscia di Gaza. Solo per questa piccola porzione di barriera, il Tesoro israeliano ha speso 88 milioni di dollari. Figurarsi se lo si volesse completare nella sua interezza. Ma il muro non è che una virgola in un discorso molto più ampio.
Il piano per il “grande Israele” e lo slogan “dal fiume al mare”
Dal fiume al mare: in questi giorni è tornata di moda questa vecchia espressione, abusata tanto dagli esponenti dell’estrema destra israeliana, per rilanciare costantemente il progetto di conquista dello Stato ebraico, quanto dai sostenitori della causa palestinese. Com’è possibile? Lo slogan “from the river to the sea” è rimbalzato talmente tanto da riaccendere il dibattito tra gli alleati occidentali, riportando sotto i riflettori la solita vuota retorica di chi vuole punire Israele per i “criminali intenti di conquista” e impedirgli di perseguirli. Sempre con l’ombra della cospirazione antisemita in agguato, pronta a essere utilizzata ogni qualvolta sia necessario. La dizione “dal fiume al mare”, cioè dal Mediterraneo al Giordano, è ancora più vecchia dello Stato israeliano.
L’espressione è antecedente il 1948, anno di fondazione dello Stato ebraico, e nasce nel contesto della decennale lotta contro la colonizzazione della Palestina storica. Viene fuori in particolare durante la grande rivolta palestinese del 1936-1939, scoppiata per ottenere il territorio allora sotto il mandato britannico. Diventa slogan ricorrente durante la diaspora palestinese post-Nakba, nell’ambito dell’attività politica che negli Anni Cinquanta e Sessanta porta alla formazione dei partiti Fatah e Fronte Popolare e all’istituzione dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). In questo senso, l’espressione rappresenta anche la frustrazione del popolo palestinese per la marginalizzazione che la loro rappresentanza politica ha subìto fino a oggi.
“Dal fiume al mare” è diventato però anche il segnale dell’imperialismo israeliano, che si è appropriato dello slogan come delle terre palestinesi. Netanyahu ha convocato una grande conferenza stampa per spiegare ai corrispondenti esteri ciò che il mondo evidentemente non ha capito, secondo il suo governo: cosa vuole Israele. Ennesimo segnale della cieca intransigenza di una leadership che sta perdendo il polso del Paese, lacerato da divisioni interne fra laici e ortodossi e sull’orlo della deflagrazione sociale. La grammatica strategica vuole che, quando si ha una grande tensione intestina alla nazione, si cerchi di sfogare tale sentimento verso l’esterno, scatenando rabbia e combattività verso un nemico. Se non si ha un nemico, lo si crea. Israele un grande, grandissimo nemico ce l’ha: l’Iran, con la sua rete di satelliti sciiti che circondano lo Stato ebraico, e cioè la triade Hamas-Hezbollah-Houthi. Doppio salto carpiato per Tel Aviv, che per anni ha denunciato lo slogan “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” perché utilizzato dagli indipendentisti palestinesi. Di più: ha sempre affermato che l’espressione costituisce una retorica “eliminazionista” o “genocida” nei confronti del popolo ebraico. Perché non farne dunque un motto, dopo averla condannata?
Il discorso di Netanyahu e il manifesto del “grande Israele”
“Israele è uno dei Paesi più piccoli del mondo. Si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Quando Hamas dice di voler liberare la Palestina, intende distruggere Israele”. In queste due brevi frasi è racchiuso il senso violento del progetto strategico sionista: controllare l’intera fascia di territorio compresa fra il mare e la Valle del Giordano. Inclusi i territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania, dunque. Lo Stato ebraico, ha proseguito Netanyahu, è “lungo e stretto nella forma, si estende per 470 chilometri ed è largo 135. L’area totale nazionale, incluse Giudea e Samaria (cioè West Bank, la Cisgiordania) e le Alture del Golan, è di 22.145 chilometri quadrati”. Con questo discorso, l’esecutivo sionista ha lanciato un messaggio incontrovertibile che conferma la definitiva morte della soluzione a due Stati: Israele afferma la propria sovranità su territori assegnati ai palestinesi dalle Nazioni Unite. A ulteriore testimonianza, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’inconsistenza delle organizzazioni multilaterali messe in piedi dagli Stati Uniti per diffondere i falsamente universali valori occidentali.
“Gaza dista 30 miglia da Tel Aviv e 40 miglia dalla nostra capitale Gerusalemme”, ha proseguito Netanyahu. Con gli Accordi di Camp David, “Israele controllava il confine con il Sinai. Oggi è necessario controllare il Corridoio di Philadelphi. Se la abbandonassimo, la Striscia di Gaza metterebbe in serio pericolo non solo le comunità circostanti, ma l’intero Stato ebraico. Questo perché l’enclave palestinese è diventata, con il supporto dell’Iran, una grande base di terroristi da quando abbiamo lasciato il Corridoio di Philadelphi”. Il nuovo obiettivo israeliano è tracciato e tutto lascia intendere, che nelle scarse tre settimane che ci separano dal primo anno di guerra aperta con Hamas, non vedremo alcuna tregua. Questo perché la guerra di Israele non finirà fino al raggiungimento dei confini mostrati dallo stesso Netanyahu in conferenza stampa, con tanto di bacchetta sulla mappa digitale.
Diversi analisti hanno sottolineato come Netanyahu abbia tutto l’interesse nel proseguire lo stato di conflitto e dunque di non giungere a un accordo coi nemici per la liberazione degli ostaggi. Perché in questo modo può evitare di affrontare lo spettro della sua fine politica e del carcere per una serie di reati dei quali è accusato. Tutto ciò è certamente vero, ma non dobbiamo dimenticare che i principi strategici di una collettività prescindono dai loro leader, si impongono di per sé e non sono mai imposti da un singolo individuo o da un’oligarchia. È questo anche il caso di Israele. Per sopravvivere in senso sovrano deve spezzare il contenimento militare e politico (e dunque anche religioso) costruitogli attorno dall’Iran. Per riuscirci il “piccolo” Israele deve tornare a essere “grande”, a spaventare gli avversari, a sovrapporre ciò che vuole a ciò che ha. L’invio di coloni violenti in Cisgiordania, ad esempio, risponde proprio a tale proposito. West Bank che sarà con ogni probabilità il prossimo grande teatro delle mire sioniste.