All’ombra delle piramidi, mentre si attende una nuova tornata di negoziati tra Israele e Hamas, l’Egitto non sembra credere troppo in un’imminente soluzione pacifica. I mediatori egiziani, ormai abituati a navigare in acque tempestose, osservano con occhio critico gli sviluppi di una trattativa che, invece di avanzare, si incaglia sempre di più. La cosiddetta “proposta ponte”, pensata per trovare un compromesso tra le parti, sembra vacillare, travolta da tensioni che non lasciano presagire nulla di buono.
La diplomazia egiziana sul filo del rasoio
Il Cairo, centro nevralgico di ogni tentativo di dialogo in Medio Oriente, si trova ancora una volta a dover orchestrare un balletto diplomatico che rischia di cadere nel vuoto. La mediazione, pur apprezzata a parole, è resa complicata dalle posizioni rigide dei protagonisti in gioco, e dal crescente coinvolgimento di attori esterni, come l’Iran e Hezbollah, che agitano ulteriormente le acque. Israele, dal canto suo, non sembra intenzionato a fare concessioni mentre i razzi continuano a cadere in Palestina.
Gli Stati Uniti tra diplomazia e armi
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, durante una telefonata con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha richiesto con urgenza di finalizzare un accordo per un cessate il fuoco a Gaza, legato alla liberazione degli ostaggi, come comunicato dalla Casa Bianca. Biden ha indicato i prossimi colloqui al Cairo come una tappa decisiva per raggiungere questo obiettivo. La conversazione è avvenuta dopo la missione del segretario di Stato Antony Blinken in Medio Oriente, iniziata con grandi aspettative ma conclusasi senza un accordo tra Israele e Hamas per una tregua nel territorio palestinese.
Mentre la diplomazia arranca, la risposta militare non si fa attendere. E qui gli Stati Uniti fanno un gioco particolare: se da un lato Blinken prova a mediare, dall’altra gli Stati Uniti forniscono armi a Israele. La Uss Abraham Lincoln, imponente portaerei americana, è entrata in Medio Oriente accompagnata da una flotta di cacciatorpediniere. Con caccia F-35C pronti al decollo e un chiaro messaggio di forza, Washington invia un segnale inequivocabile: la sicurezza di Israele non è in discussione. Ma questo dispiegamento di forze alimenta i timori di un conflitto più ampio, con Teheran e i suoi alleati libanesi pronti a cogliere ogni occasione per allargare lo scontro.
Perché fanno questo? Gli Stati Uniti agiscono come mediatori nel conflitto israelo-palestinese, ma forniscono anche armi a Israele per motivi strategici. Da un lato, Israele è considerato un alleato chiave che contribuisce alla sicurezza americana nel Medio Oriente, offrendo cooperazione in settori cruciali come l’intelligence e la difesa. Dall’altro, Washington vuole evitare che il conflitto si allarghi coinvolgendo potenze regionali come l’Iran, che sostiene gruppi militanti ostili a Israele.
L’orrore dei bombardamenti a Gaza: la conta dei morti non si ferma
Il dramma quotidiano non conosce tregua e ci ha abituato a vedere fiumi di sangue giornalieri. L’ultimo raid israeliano ha colpito duramente il campo profughi di Maghazi, causando la morte di tre persone e ferendone altre quattro. Ma il bilancio delle vittime cresce a vista d’occhio: la Wafa, agenzia di stampa palestinese, riporta 11 morti solo nelle ultime ore a Beit Lahia, e altri bombardamenti sono stati registrati a Khan Yunis e Jabalia. Nel nord dell’enclave palestinese, il fragore delle esplosioni scandisce il ritmo di una guerra che non sembra volersi fermare.
Le proteste infiammano le piazze americane
Non solo le parole dei familiari: a pochi passi dalla convention democratica a Chicago, le piazze si sono riempite di manifestanti pro-Gaza. Centinaia di persone si sono radunate per esprimere la loro frustrazione verso una politica americana che continua a sostenere Israele, mentre a Gaza si consuma una tragedia umanitaria. Le proteste non si fermano e molti manifestanti dichiarano apertamente che non sosterranno nessuno dei due principali candidati alle prossime elezioni presidenziali, rifiutando di legittimare una scelta politica che, a loro dire, contribuisce a perpetuare il conflitto. Stiamo assistendo a un nuovo Vietnam?