Questo articolo non può che cominciare con estremo rispetto e profonda solidarietà per una collega detenuta in un Paese straniero e ingiustamente attaccata in patria per la sua scelta di raccontare l’Iran sul campo. L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala ha riportato a galla tutta l’ipocrisia e la poca conoscenza del resto del mondo che si respirano alle nostre latitudini.
In particolare si è sproloquiato e pontificato molto sui “veri motivi” – come se ce ne potessero essere altri – del fermo della reporter. C’è chi ha additato l’oscurantista Repubblica Islamica, chi cita mille altri esempi di detenzione coatta di artisti e intellettuali (tutti diversi), e chi ha sentenziato “se l’è cercata”. La verità, come sempre, sta nel mezzo. E chiama direttamente in causa gli Stati Uniti e lo sconvolgimento internazionale di cui le guerre in corso sono il sintomo più evidente.
Chi è e come sta Cecilia Sala
Cominciamo dalle cose più importanti. Cecilia Sala sta bene ed è detenuta in una cella singola. A riferirlo è stato il ministro Antonio Tajani, sottolineando la differenza di trattamento rispetto ad Alessia Piperno, la scrittrice e travel blogger che nel 2022 fu invece trattenuta in cella con altre persone. Piperno fu poi rilasciata dopo 45 giorni di reclusione nel carcere di Evin, lo stesso in cui si trova Cecilia Sala. Ma il suo caso non potrebbe essere più diverso: la giornalista aveva un regolare visto di lavoro giornalistico e le autorità iraniane avevano ispezionato in lungo e in largo i suoi scritti e le sue opinioni. E, no, Cecilia Sala non è stata rinchiusa in prigione perché lavora per media occidentali o perché si oppone al regime degli ayatollah.
Checché se ne possa pensare, l’Iran ha consentito l’ingresso della reporter nel Paese con tanto di accredito presso il ministero degli Esteri, e non si tratta di mosse senza significato, ma di cose prese molto sul serio anche da quel regime islamista sciita che tanto misconosciamo. Alessia Piperno, al contrario, non era in possesso di un permesso del genere. Se ci aggiungiamo il fatto che Teheran è nel mezzo di una guerra che da fredda sta diventando calda, il cerchio comincia a chiudersi, ma ne riparleremo fra poco.
Cecilia Sala è stata fermata e condotta nel carcere di Evin il 19 dicembre, ma la notizia è stata diffusa solo dopo Natale perché nel mentre la Farnesina stava negoziando il rilascio con le autorità iraniane. Era stato richiesto il massimo riserbo sulla vicenda per non compromettere le trattative. Nata nel 1995, la 29enne Cecilia Sala ha cominciato molto presto a fare la giornalista, dimostrando grande talento e dedizione. Dopo le iniziali collaborazioni con testate come Vice Italia, nel 2016 approda nella redazione di “Servizio Pubblico” di Michele Santoro su La7, diventando professionista. Il tutto mentre frequenta l’Università Bocconi di Milano, interrompendo però gli studi nel 2018 pochi mesi prima di conseguire la laurea proprio per dedicarsi a tempo pieno al mestiere di reporter. Il suo focus sono gli esteri, che segue sul campo. La prima grande sfida la raccoglie seguendo gli sconvolgimenti in America Latina, dalla crisi in Venezuela a quella in Cile, per poi trasferirsi nell’Afghanistan tornato in mano ai talebani e raccontare la guerra in Ucraina. Dal 2019 collabora sempre come giornalista freelance con Il Foglio e dal 2022 inizia a lavorare come conduttrice e autrice di un podcast divenuto celebre in breve tempo, “Stories”. Cecilia Sala ha all’attivo anche libri e saggi, tra cui spiccano “Polvere. Il caso Marta Russo” e “L’incendio. Reportage su una generazione tra Iran, Ucraina e Afghanistan”.
Cosa c’entrano gli Usa e lo “scambio” con un iraniano arrestato in Italia
Il viceministro agli Esteri, Edmondo Cirielli, si è detto ottimista sul fatto che Cecilia Sala sarà liberata e riportata in Italia in “tempi ragionevoli”. Dichiarazioni fondate, almeno quanto quelle secondo cui alla giornalista non sarà torto un capello mentre è detenuta nel carcere iraniano di Evin. Com’è possibile affermarlo con certezza? Sempre mantenendo il massimo e dovuto rispetto per una collega in una tale situazione, la detenzione di Sala è un atto ostile da parte di Teheran nei confronti dell’Occidente. E fin qui c’eravamo arrivati, direte voi. Ma l’Iran non ce l’ha con l’Italia, ce l’ha col nostro patron: gli Stati Uniti. Sui media si fa sempre più strada la pista dello “scambio” tra la liberazione di Cecilia Sala e il rilascio di Mohamed Abedini Najafabadi, cittadino iraniano arrestato di recente all’aeroporto di Malpensa proprio su richiesta degli Usa. Nel formalizzare la richiesta di estradizione, Washington accusa Abedini di avere aggirato sanzioni ed embarghi e avere fornito materiale elettronico (tra cui componenti per droni) ai pasdaran iraniani.
La Procura di Milano ha convalidato l’arresto di Abedini, dunque sulla carta è complice degli Usa agli occhi dell’Iran. Teheran lo sa bene, non c’è sorpresa: l’Italia è un satellite degli Stati Uniti e ha semplicemente eseguito un ordine del suo superiore. Non c’è complottismo o vergogna in questo, la geopolitica non giudica ma mostra la realtà nuda e cruda dei rapporti di forza fra Stati e comunità umane. Ai tempi dell’arresto dell’ufficiale di Marina Walter Biot, per aver venduto segreti ai russi, il governo italiano non seguì il consueto riserbo su questioni di intelligence e rese pubblica la vicenda, proprio per mostrare a Washington quanto il nostro Paese fosse fedele alla linea atlantica e non colluso col Cremlino. Così va il mondo, direbbe qualcuno.
In questo senso l’arresto di Mohamed Abedini Najafabadi è legato al fermo di Cecilia Sala. Schiacciato dalle sanzioni americane ed europee, intraprese per impedirne l’ascesa nucleare, l’Iran ha poche possibilità di compiere la propria ritorsione nei confronti dei Paesi ostili. Non essendo il motore del mercato globale, al contrario degli Usa, non può rispondere alle sanzioni con la stessa moneta. Ecco dunque che coglie al volo un’occasione che si inquadra nella cosiddetta “diplomazia degli ostaggi”, che anche in passato ha permesso agli ayatollah di utilizzare prigionieri stranieri come leva per ottenere favori o la liberazione di iraniani detenuti all’estero.
Il vero motivo per cui Cecilia Sala è stata arrestata in Iran
Di fatto, però, non conosciamo praticamente nulla sulle circostanze del fermo di Cecilia Sala. Molti colleghi che lavorano e hanno lavorato in Iran ci riferiscono tuttavia come sia inverosimile che la reporter sia stata bloccata per il suo lavoro di cronista sui movimenti femminili o per le sue opinioni. Come per ogni giornalista al quale viene rilasciato un visto, scritti e contenuti social della 29enne sono stati attentamente esaminati dalle autorità di Teheran. L’Iran sta vivendo un momento delicatissimo, in cui sente le spalle incollate al muro del Medio Oriente. Dilaniato da tensioni interne e da uno scontro generazionale per la futura leadership della Repubblica Islamica, cacciato via da parte della Siria assieme al dittatore Bashar al-Assad, sempre più in difficoltà nel sostenere la tripla H della Mezzaluna Sciita (Hamas, Hezbollah e Houthi), indebolito dal parallelo indebolimento della cooperante Russia, schiacciato dalle sanzioni e dagli attacchi di Usa e Israele, isolato diplomaticamente e costretto a proseguire il dialogo con gli altri Paesi in maniera sotterranea e ufficiosa.
Nonostante tutto questo, in Iran non si è però mai fermato il flusso di reporter stranieri e perfino la presenza di opinioni divergenti dalla narrazione statale, anche in programmi televisivi controllati dal regime sciita. Se tornassimo a due anni fa, epoca cioè in cui Teheran aveva raggiunto un livello di “apertura” tale da non inasprire la sua guerra a Israele, potremmo anche pensare che Cecilia Sala sia stata arrestata “alla Alessia Piperno”, magari dopo aver partecipato a manifestazioni politiche o fotografato installazioni militari, governative o nucleari. In tempo di conflitto e caos ciò non è plausibile. Sempre conservando la massima delicatezza, dobbiamo tuttavia sforzarci di vedere la situazione con gli occhi dell’altro, in questo caso l’Iran, per cercare di comprendere davvero cosa sta succedendo. È il metodo che anche Cecilia ha sempre seguito nel corso della sua giovane e brillante carriera nei teatri di crisi del mondo.
Il “ricatto degli ostaggi” è (anche) responsabilità occidentale
Visto dalla parte di Teheran, il “ricatto” degli ostaggi urlato in Occidente appare invece come una “giusta” reazione a decisioni statunitensi che hanno affossato ogni capacità iraniana. Soprattutto tramite sanzioni secondarie e indirette che soffocano aziende e Paesi terzi, “colpevoli” di voler commerciare con una nazione con la quale hanno sempre fatto affari e che non ha mai rivolto loro una minaccia. Condannando così la Repubblica Islamica a un isolamento che l’ha portata ad approfondire la rete di collaborazione con gli altri “grandi nemici”, Russia e Cina. Il sofferente impero persiano è inoltre “incattivito” da decenni di uccisioni di scienziati e alti dirigenti iraniani da parte degli Usa e da ondate di pesanti attacchi sul proprio territorio da parte di Israele. Dopo aver costruito in oltre 20 anni una “diplomazia parallela”, l’Iran ha visto andare tutto in fumo con pochi scossoni provenienti da Occidente. Anche da parte di quell’Italia sì satellite americano, ma anche considerata “Paese amico” dal regime sciita.
Un’ultima considerazione, in conclusione, ci sia permessa. Resta sacrosanto il mantra che recita “il giornalismo non è un crimine”, che condanna dunque le autorità iraniane per aver privato una nostra connazionale e collega della propria libertà soltanto per interesse nazionale. Cerchiamo di applicare i medesimi principi e di pensarla allo stesso modo anche nel ricordo dei 200 giornalisti uccisi dall’esercito israeliano in poco più di un anno di guerra. Qualcosa in più che semplici “incidenti” nella lotta al “terrorismo” palestinese, vere e proprie esecuzioni. Come dimostrano anche i ben più numerosi rifiuti di visto giornalistico ed entrata nel Paese a tutti quei reporter che vorrebbero raccontare l’apocalisse di Gaza per quella che è veramente.