Scontrino da 1.000 euro a Ponza, cosa dice la legge sui prezzi al ristorante

Torna la polemica sugli scontrini pazzi: la legge è estremamente chiara nello stabilire gli obblighi dei ristoratori e i diritti dei clienti

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Mauro Di Gregorio

Giornalista politico-economico

Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Palermo. Giornalista professionista dal 2006. Si interessa principalmente di cronaca, politica ed economia.

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Ogni estate torna puntuale la polemica sugli scontrini pazzi, veri o presunti. L’ultimo caso riguarda un ristorante di Ponza che per un pranzo ha presentato un conto da poco meno di mille euro: 923 euro, per la precisione.

Il pranzo in questione, gustato presso il ristorante “Il Rifugio dei naviganti”, nella zona di Sant’Antonio a Ponza, è stato composto da un antipasto, quattro primi, acqua e vino al prezzo di 225 euro a testa, per quattro persone. Il risultato: un conto pari a mezzo stipendio.

Il conto da 923 euro a Ponza

A fare la differenza sono stati gli scialatielli all’aragosta, costati 759 euro, e due bottiglie di biancolella della locale Cantine Migliaccio, pagate 120 euro.

La storia è stata raccontata da Repubblica e ripresa da numerose testate. E come ogni storia estiva, è stata condita da un piccolo giallo: “Erano turisti, hanno chiesto l’intervento della Guardia di Finanza”, si dice a Ponza. Ma al comando delle Fiamme gialle di Latina non è risultata alcuna denuncia, e neppure al Comune – come ha confermato il sindaco – è arrivata alcuna segnalazione. Rimangono le polemiche e la baraonda mediatica, finché il caso di Ponza non diverrà obsoleto e superato da un nuovo scontrino pazzo.

Il gestore del “Rifugio dei naviganti”, intervistato dal quotidiano, si difende tirando in ballo il prezzo dell’aragosta (“230 euro al chilo… tutto il mondo sa che costa”) e informando che nella sua struttura ci sono anche piatti da 15-20 euro. In pratica, la responsabilità di quanto accaduto è degli avventori: “Tante volte ci sono difficoltà perché dei clienti vengono, fanno i signori e poi si lamentano del prezzo. Sono cose che mi rammaricano”.

Gli obblighi dei ristoratori relativamente al menu

Dopo la nuova puntata della serie “scontrini pazzi“, ci si domanda se su quanto avvenuto possano esserci dei profili di illegalità nel comportamento del ristoratore. La risposta è no: l’unico obbligo del proprietario di un ristorante o di un bar è quello di esporre chiaramente i prezzi sul menu. Nel momento in cui viene specificato sul menu il prezzo di bevande, cibo e servizi vari, si stipula una sorta di “contratto verbale” con il cliente che accetta le condizioni. Con la liberalizzazione, infatti, non esiste più alcun calmiere dei prezzi imposto dalla legge per bar e ristoranti. In questa situazione l’unica forma di calmiere è il mercato, che agisce sulla concorrenza fra esercenti.

La materia è regolata da una serie di norme. La libertà dell’esercente nel fissare i prezzi viene garantita dalla Legge 287/1990 (Tutela della concorrenza e del mercato) e dalla Direttiva Ue 2011/83/Ue (sui diritti dei consumatori). La stessa direttiva comunitaria, però sancisce che le informazioni precontrattuali devono essere messe a disposizione del consumatore in maniera adeguata, con un linguaggio semplice e comprensibile.

Il D. Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) al suo Capo III Sezione I impone a tutti gli esercenti, e quindi anche a baristi e ristoratori, di indicare chiaramente i prezzi degli alimenti offerti al pubblico.

Il D. Lgs 59/2010 (in attuazione della Direttiva 2006/123/Ce) all’articolo 31 stabilisce chiaramente che “I prestatori forniscono al destinatario in modo chiaro e senza ambiguità, in tempo utile prima della stipula del contratto o in ogni caso prima della prestazione del servizio” le informazioni relative al “prezzo del servizio, laddove esso è predefinito dal prestatore per un determinato tipo di servizio”.

Il menu per le signore

Alcuni ristoranti propongono ancora il cosiddetto “menu delle signore”, ovvero una versione del menu priva dell’indicazione dei prezzi. L’idea sottostante è che sia sempre l’uomo a dover pagare il conto. C’è chi lo considera un gesto di galanteria, e chi invece lo interpreta come una forma di sessismo. Alla luce di quanto discusso finora, dal punto di vista strettamente giuridico si verrebbe a creare una zona grigia qualora, al termine del pasto, si chiedesse alla “signora” di pagare per ciò che ha consumato, senza che prima fosse stata messa nelle condizioni di conoscere i prezzi delle portate.