Lo smart working è strutturale per oltre un terzo delle aziende italiane

Lo smart working diventa strutturale: lo adotta il 32,3% delle imprese. Resta l'allarme assunzioni: il 67,8% non trova personale qualificato

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Federica Petrucci

Editor esperta di economia e attualità

Laureata in Scienze Politiche presso l'Università di Palermo e Consulente del Lavoro abilitato.

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A quasi 6 anni dall’inizio della pandemia di Covid, il lavoro in Italia ha cambiato pelle in modo profondo e irreversibile. Alcune trasformazioni, inizialmente adottate come risposta emergenziale, si sono consolidate fino a diventare elementi strutturali dell’organizzazione aziendale. Tra queste, lo smart working occupa un posto centrale.

Dai dati dell’indagine sul lavoro elaborata da Confindustria, infatti, il lavoro agile non è più un’eccezione, ma una modalità operativa stabilmente presente in circa un terzo delle imprese italiane. Un livello 4 volte superiore rispetto al periodo pre-pandemico, quando a utilizzarlo era poco più dell’8% delle aziende.

I numeri dello smart working in Italia

Nel 2024 il lavoro agile risulta adottato dal 32,3% delle imprese, una quota sostanzialmente invariata rispetto all’anno precedente.

Dopo l’espansione rapida tra il 2020 e il 2022, l’utilizzo dello smart working si è assestato su un livello che riflette un equilibrio tra esigenze produttive, organizzazione del lavoro e preferenze dei lavoratori.

La diffusione, tuttavia, non è omogenea.

I settori con più smart worker

Il lavoro agile è più presente nei servizi (39,6%) rispetto all’industria (26,7%), dove la natura delle attività (spesso legate alla produzione fisica, alla manutenzione o alla logistica) rende più complesso il ricorso al lavoro da remoto.

Nei servizi avanzati, nella consulenza, nel settore Ict, nel marketing e nei servizi alle imprese, invece, lo smart working è ormai parte integrante dei modelli organizzativi.

Più smart working nelle grandi imprese

Un altro elemento distintivo è la dimensione aziendale.

I dati Confindustria mostrano che lo smart working è presente:

  • nel 24,3% delle imprese piccole (meno di 15 dipendenti);
  • nel 34,4% delle imprese medie (tra 16 e 99 dipendenti);
  • nel 65,4% delle grandi imprese (dai 100 dipendenti in su).

Le grandi aziende dispongono infatti di strutture organizzative più complesse, investono maggiormente in infrastrutture digitali e hanno una maggiore capacità di definire policy formali sul lavoro agile, anche attraverso la contrattazione aziendale.

Le micro e piccole imprese, che costituiscono l’ossatura del tessuto produttivo italiano, mostrano invece maggiori difficoltà, spesso legate a limiti tecnologici, organizzativi o culturali.

Quanto si usa il lavoro agile: il modello è ibrido

Accanto alla diffusione, è rilevante analizzare anche l’intensità di utilizzo dello smart working.

Nelle imprese in cui il lavoro agile è previsto oltre un terzo dei dipendenti non dirigenti (35,8%) lavora almeno in parte da remoto.

La distribuzione è piuttosto equilibrata tra industria (34,9%) e servizi (37,2%), segno che, una volta adottato, lo smart working tende a essere utilizzato con modalità simili nei diversi settori.

Nel dettaglio:

  • l’8,3% dei dipendenti lavora da remoto per un massimo di un giorno alla settimana;
  • il 17,7% fino a due giorni;
  • il 9,7% utilizza lo smart working per tre o più giorni settimanali.

Questo conferma che il modello prevalente è quello del lavoro ibrido, che combina presenza e distanza, riducendo gli spostamenti senza rinunciare del tutto al lavoro in sede.

Le aziende non trovano personale adeguato

Il quadro organizzativo si intreccia però con una criticità strutturale, ovvero la difficoltà di reperimento del personale.

Secondo l’indagine Confindustria, il 67,8% delle imprese che erano alla ricerca di lavoratori ha segnalato problemi nel trovare i profili adeguati, una percentuale molto simile a quella dell’anno precedente (69,8%).

Si tratta ormai di un fenomeno stabile, che colpisce soprattutto l’industria (72,9% contro il 61,3% dei servizi) e cresce con la dimensione aziendale, fino a raggiungere il 78,9% nelle grandi imprese.

Le carenze più gravi riguardano:

  • le competenze tecniche come manutenzione, installazione, produzione, logistica, informatica di base (segnalate dal 57,1% delle imprese con difficoltà);
  • le mansioni manuali (46,3%), particolarmente critiche nel settore industriale;
  • le competenze trasversali (18,5%);
  • le competenze digitali avanzate (18,4%).

Formazione e apertura dei bacini di ricerca

Di fronte a questo scenario, l’84,1% delle imprese ha avviato contromisure:

  •  formazione del personale interno (56%);
  • consulenze e collaborazioni esterne (52,9%);
  • allargamento del bacino di ricerca, sia geografico sia in termini di canali di recruitment (40,2%).

In questo contesto, lo smart working diventa anche uno strumento competitivo per attrarre talenti, ampliando il raggio di reclutamento oltre i confini territoriali tradizionali.

Sopratutto in un contesto in cui l’intelligenza artificiale si sta sempre di più diffondendo, quasi una impresa su due è coinvolta in un percorso di trasformazione tecnologica:

  • l’11,5% utilizza o testa soluzioni di IA;
  • il 37,6% ne valuta l’introduzione.

Le applicazioni più diffuse riguardano:

  • analisi dei dati;
  • marketing;
  • ricerca e sviluppo;
  • automazione;
  • assistenza clienti.

Tuttavia, meno della metà delle imprese che hanno avviato l’adozione dell’IA (43,7%) ha già adeguato i processi interni per gestirne l’impatto sulle risorse umane.

Anche in questo caso la principale criticità resta la carenza di competenze interne (36,7%), seguita dalla complessità di integrazione e dai costi.

Questo ritardo rischia di amplificare il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, già evidenziato dai dati sul reperimento del personale.