Risarcimento per stress sul lavoro anche se il mobbing non è intenzionale

La Cassazione spiega quando l'azienda è responsabile per stress, anche senza atti persecutori. I principi chiave della sentenza 31367/2025

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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La Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema tanto delicato, quanto frequente nei rapporti di lavoro: il mobbing. In materia, le dispute giudiziarie mirano a fare luce sulla responsabilità dell’azienda, per comportamenti o situazioni che danneggiano la salute psicofisica del dipendente.

Nella sentenza n. 31367 di quest’anno, la Suprema Corte ha spiegato che un lavoratore subordinato stressato, può ottenere un risarcimento economico anche in assenza di atti persecutori contro di lui. Risponde il datore di lavoro per responsabilità contrattuale e per il fatto in sé del danno alla salute.

Vediamo insieme più da vicino il caso concreto e la decisione, perché contiene un principio giurisprudenziale di sicura applicazione generale.

Mobbing in ufficio ma senza un intento persecutorio

La lite traeva origine dal ricorso presentato da una lavoratrice contro il datore, con domanda di accertamento di una condotta di mobbing patita una dozzina d’anni prima. Al contempo, la donna chiedeva anche il risarcimento del danno.

In primo grado, la magistratura accoglieva le domande della dipendente, ma in appello il giudice si pronunciava in senso opposto.

Infatti, accertati i fatti e ricostruiti gli elementi utili ad accertare eventuali responsabilità, la magistratura giungeva alla conclusione dell’assenza di un intento persecutorio, unitario e continuato, ai danni della donna.

In particolare, la corte territoriale respingeva le richieste della lavoratrice, ritenendo che, pur essendoci state situazioni tese nei rapporti, il comportamento datoriale non potesse qualificarsi come mobbing.

Secondo i giudici, infatti, i comportamenti contestati dalla donna, seppur a volte contrari alla comune educazione, erano giustificati da esigenze di servizio o da disservizi causati della dipendente stessa.

Non solo. Le patologie psicofisiche accertate in tribunale non sarebbero risultate collegate con certezza a condotte datoriali “oggettivamente mobbizzanti”. Perciò, secondo il giudice di secondo grado, non c’era né mobbing né, conseguentemente, alcun diritto al risarcimento danni.

I motivi del ricorso in Cassazione da parte della lavoratrice

La lavoratrice non si arrese all’esito dei giudizi di merito, facendo ricorso presso i giudici di piazza Cavour. Contestava:

  • la motivazione, a suo dire insufficiente e contraddittoria, della sentenza d’appello;
  • il mancato rispetto dei principi giurisprudenziali sul mobbing, secondo cui anche un datore autoritario e inadempiente può porre in essere condotte vessatorie;
  • l’omesso esame di importanti certificazioni mediche, nelle quali venivano attribuite alla situazione lavorativa specifiche patologie, aggravate dalla condizione di gravidanza;
  • l’inversione dell’onere della prova, con indebita richiesta alla dipendente di dimostrare la legittimità o meno dei provvedimenti disciplinari a suo carico.

In estrema sintesi, la donna lamentava alcuni errori di valutazione e il travisamento del quadro normativo applicabile. Tanto bastava a tentare la carta del ricorso in Cassazione.

La pronuncia della Cassazione, perché il ricorso va accolto

Con la sentenza n. 31367/2025 la Suprema Corte ha dato ragione alla donna, ritenendo fondati i motivi e censurando la sentenza d’appello. Il giudice di secondo grado, spiega la Cassazione, aveva redatto una sentenza erronea, per non essersi conformato ai consolidati principi in materia di tutela della salute sul lavoro e responsabilità datoriale.

La Cassazione ha ricordato che la tutela delle condizioni di lavoro, di cui all’art. 2087 Codice Civile, ha natura contrattuale. Conseguentemente:

  • il lavoratore deve dimostrare i fatti dannosi e le regole violate, ma non la colpa del datore;
  • per escludere ogni responsabilità a suo carico, il datore è invece obbligato a dimostrare di aver fatto tutto il necessario per prevenire il danno.

Non solo. Il vero punto chiave della sentenza sta nell’affermazione per cui la responsabilità sussiste, anche senza provare la volontà persecutoria tipica del mobbing.

Infatti, ai fini della responsabilità per danni al dipendente ha importanza anche la sola oggettiva idoneità delle condotte o dell’ambiente lavorativo a ledere salute o dignità del lavoratore.

In un caso come quello di cui è stata vittima la donna, quindi, aveva senso riconoscere un risarcimento danni nei suoi confronti.

Straining e mobbing: quando scatta il risarcimento

La giurisprudenza della Cassazione distingue mobbing da straining, ma classifica quest’ultimo come una violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 Codice Civile.

Lo straining è cioè una forma attenuata di mobbing, una condizione di stress forzato e prolungato che può derivare anche da un solo episodio o da un clima lavorativo ostile. Un quadro comunque sufficiente, spiega la Corte, a indicare l’inadempimento di un fondamentale dovere di legge per il datore.

Anzi, proprio perché come il mobbing lede l’integrità psicofisica del lavoratore, anche in caso di accertato straining, l’azienda dovrà rispondere civilmente in tribunale. E a maggior ragione in un caso come questo, in cui la lavoratrice all’epoca dei fatti era incinta.

Ricapitolando, per la Cassazione la responsabilità del datore nasce quando:

  • consente, anche solo colposamente, che si mantenga un ambiente di lavoro stressogeno e mortificante per la dignità;
  • adotta condotte, anche non illegali in sé (ad es. minacce), ma che in concreto generano ansia, isolamento, umiliazione o sofferenza psichica nel dipendente;
  • non previene i rischi per la salute, compresi quelli da stress lavoro-correlato, come imposto dal Testo unico salute e sicurezza sul lavoro del 2008.

Considerata la negligenza dell’azienda, la Suprema Corte ha così accolto il ricorso della lavoratrice e cassato la sentenza impugnata. Ha altresì rinviato la causa in corte d’appello, in diversa composizione, affinché riesamini la vicenda applicando correttamente i principi giurisprudenziali evidenziati.

Cosa cambia per le vittime di mobbing e straining

Questa pronuncia ribadisce un orientamento ormai consolidato: la tutela risarcitoria della salute e dignità del lavoratore non richiede necessariamente la prova del mobbing in senso tecnico-giuridico.

È sufficiente l’esistenza di un ambiente nocivo, un clima tossico o una gestione autoritaria o disfunzionale, che nel corso del tempo provochi un danno alla persona. Recentemente la Cassazione ha qualificato come straining anche la richiesta di lavorare di più rispetto all’originario accordo contrattuale.

Con la sentenza n. 31367, la magistratura ha così riaffermato l’importanza dell’art. 2087 del Codice Civile quale clausola generale di protezione del lavoratore, chiarendo che pure condotte non programmaticamente persecutorie possono determinare responsabilità contrattuale del datore.

Concludendo, la decisione segna un punto fermo nella giurisprudenza sul tema, ampliando la tutela contro ambienti stressogeni e pratiche di straining.

Pur in assenza di dolo dell’azienda, nessun danno alla dignità, salute o personalità del lavoratore può restare senza tutela. Infatti il mancato rispetto delle prescrizioni di sicurezza di cui al d. lgs. 81/2008 espone il datore alle conseguenze risarcitorie della responsabilità contrattuale.

Ecco perché la pronuncia ricorda l’obbligo di valutazione dei rischi, previsto dal Testo Unico su salute e sicurezza, comprendendo lo stress lavoro-correlato tra gli elementi da monitorare.