Il prof mente sul doppio lavoro: quando la bugia costa il posto

La Cassazione, con la sentenza n. 26049/2025, conferma il licenziamento per falsa dichiarazione all’assunzione e ribadisce che nel pubblico impiego la lealtà e la trasparenza sono obblighi fondamentali

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Una sentenza della Cassazione emessa quest’anno, la n. 26049, fa chiarezza sugli obblighi che ricadono su chi svolge la professione dell’insegnamento. In particolare, conferma il licenziamento per giusta causa inflitto a una docente e ribadisce un principio fondamentale in tema di pubblico impiego: la falsa dichiarazione resa al momento o per l’assunzione, può giustificare lo stop immediato del rapporto di lavoro, anche a prescindere dall’effettiva incompatibilità tra due impieghi pubblici.

Vediamo insieme, in sintesi, i fatti di causa e la decisione della Corte, di indubbia valenza per la generalità di coloro che lavorano nella scuola pubblica.

La vicenda concreta e la doppia carriera tra scuola e università

Il caso che ha generato la disputa giudiziaria finita in Cassazione, riguarda una professoressa di madrelingua inglese che, da diversi anni, svolgeva incarichi di supplenza part-time in una scuola pubblica di istruzione secondaria di secondo grado. Dal 2009, la stessa docente aveva iniziato a collaborare con l’università di Foggia come collaboratrice esperto linguistico, firmando contratti di diritto privato rinnovati nel corso del tempo.

Circa una decina di anni fa, la prof era stata immessa in ruolo come insegnante di lingua straniera alle dipendenze del Ministero dell’Istruzione. Contestualmente, aveva chiesto e ottenuto l’aspettativa per motivi personali, continuando tuttavia a svolgere attività di docenza part-time presso più istituti scolastici.

Intanto, presso l’università pugliese, la sua collaborazione era proseguita fino alla stabilizzazione a tempo indeterminato nel 2018, grazie alla procedura prevista dalla legge.

La contestazione disciplinare e il licenziamento per giusta causa

Nel 2021, l’ateneo datore avviò un procedimento disciplinare nei confronti della donna, contestandole di aver reso dichiarazioni non veritiere all’atto dell’assunzione a tempo indeterminato. Infatti, nel contratto la lavoratrice aveva dichiarato di non avere altri rapporti di lavoro pubblico o privato, pur essendo – da anni – formalmente docente di ruolo presso il Ministero dell’Istruzione. In particolare, la questione era venuta alla luce nel corso di controlli incrociati sulle posizioni contributive e lavorative del personale scolastico.

Al termine del contraddittorio previsto dalla legge, l’università decise per il licenziamento per giusta causa, e quindi senza preavviso, con apposito provvedimento disciplinare.

Il ricorso della donna e le prime sentenze di merito

La professoressa si oppose all’esito del procedimento disciplinare, impugnando il recesso unilaterale innanzi al tribunale foggiano e sostenendo che non vi fosse alcuna reale incompatibilità tra i due impieghi, trattandosi – da un lato – di un incarico universitario e – dall’altro – di un part-time scolastico di poche ore settimanali.

Inoltre, riteneva di non aver reso dichiarazioni mendaci, perché la situazione non comportava conflitto d’interessi o doppia retribuzione a tempo pieno. Tuttavia, il giudice di primo grado bocciò il ricorso con sentenza.

In appello, la donna si difese richiamando la sentenza n. 22497/2022 della Cassazione, che in un caso analogo aveva escluso l’incompatibilità tra due rapporti part-time presso pubbliche amministrazioni, come pure l’art. 53 del d. lgs. 165/2001, che disciplina il cumulo di impieghi e incarichi pubblici. Ribadì che non aveva dichiarato il falso, ritenendo di non essere obbligata a richiedere alcuna autorizzazione, né a comunicare nulla, svolgendo un part time scolastico molto ridotto.

Ma anche la corte d’appello, con decisione dello scorso anno, giunse alla conferma del licenziamento in tronco. Infatti, il recesso non era stato disposto per un’asserita incompatibilità tra due rapporti di pubblico impiego, ma per dichiarazione infedele, data al momento della stabilizzazione.

Secondo i giudici, la professoressa aveva affermato falsamente di non avere altri impieghi pubblici, e proprio questa dichiarazione o autocertificazione le aveva consentito di partecipare a una procedura di stabilizzazione riservata ai soli lavoratori precari. Questo dimostrava, secondo i giudici, un comportamento grave, intenzionalmente falso e sufficiente a giustificare il licenziamento per giusta causa.

Il passaggio finale in Cassazione

La vicenda si concluse presso i giudici di piazza Cavour. Infatti, la professoressa fece ricorso contro la sentenza di secondo grado perché caratterizzata, a suo dire, da gravi errori. Tuttavia, anche la Suprema Corte non mutò l’orientamento precedente, respingendo l’iniziativa della donna e confermando integralmente la pronuncia d’appello.

Secondo i giudici di legittimità, la docente non aveva contestato in modo specifico la motivazione centrale della sentenza di secondo grado, ossia la ragione per cui l’espulsione dall’ateneo era fondata non sull’incompatibilità, ma sulla non corrispondenza al vero della dichiarazione all’assunzione. Non a caso, la Cassazione ha ricordato che, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., il ricorso deve includere motivi specifici, completi e riferiti al contenuto della decisione impugnata. In questa vicenda, la donna non aveva attaccato la motivazione principale della sentenza d’appello, rendendo inutile il suo ricorso.

Perciò il fatto che l’insegnante avesse affermato di non aver altri rapporti di impiego pubblico o privato e ribadito, con la dichiarazione sostitutiva di certificazione, di non prestare servizio presso altre amministrazioni pubbliche, è stato decisivo ai fini della conferma del licenziamento, con anche la condanna al pagamento delle spese processuali.

Che cosa cambia

Al di là del caso concreto, nella sentenza 26049/2025 i giudici di piazza Cavour hanno affermato un importante principio giurisprudenziale:

  • nel pubblico impiego, la falsa dichiarazione resa in sede di assunzione è una violazione idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e a giustificare l’espulsione immediata dal luogo di lavoro;
  • non importa la successiva valutazione sull’eventuale compatibilità dei due rapporti di lavoro, perché il fulcro del procedimento disciplinare è stata la condotta mendace, non il cumulo degli impieghi in sé.

Inoltre, l’obbligo di trasparenza e lealtà rappresenta un elemento cardine dei rapporti, specialmente nell’ambiente scolastico, dove l’integrità dei comportamenti ha un valore d’esempio alla luce dell’istituzionale missione educativa. In altre parole, il mancato rispetto degli obblighi di trasparenza – nei confronti dell’amministrazione datrice – rischia di riflettersi negativamente sull’immagine dell’intero sistema, a prescindere dalla prova di danni economici o materiali.

Ecco perché, nella scuola, legge e contratti collettivi dispongono rigidi doveri in tema di comunicazione e autorizzazione per ogni incarico o attività parallela e retribuita. Finalità della disciplina è evitare conflitti di interesse e garantire la piena disponibilità del dipendente alla delicata funzione pubblica cui è preposto (e che non di rado oggi è fonte di elevato stress).

Concludendo, la sentenza ha così un impatto rilevante su prassi amministrativa e giurisprudenza, sollecitando scuole e insegnanti a una maggiore attenzione nella gestione dei secondi lavori di ambito pubblico o privato. La pronuncia chiarisce molto bene che anche una falsa dichiarazione, apparentemente marginale, se resa in sede di assunzione o stabilizzazione può avere conseguenze irreversibili sul rapporto di lavoro.