Il futuro del conflitto tra Israele e Hamas si gioca in questi giorni su un dossier fondamentale: la liberazione degli ostaggi. Dietro pressione di grandi potenze e attori stranieri, in primis Stati Uniti e Qatar, si era giunti finalmente a un’intesa che avrebbe potuto sbloccare la situazione.
Il condizionale è d’obbligo, perché tutto sembra essersi bloccato ancora una volta. Dopo l’intransigenza di Israele protrattasi per settimane a qualunque compromesso, ora è Hamas a sbarrare il passo verso il cessate il fuoco che accompagna lo scambio di prigionieri. Dietro gli ufficiali motivi logistici c’è molto altro, come ben si può intendere. Cosa sta succedendo.
Cosa prevede l’accordo sugli ostaggi fra Israele e Hamas
L’accordo raggiunto da Stato ebraico e fondamentalisti della Striscia è arrivato dopo settimane di “no” da parte israeliana, bombardamenti e assedio totale a Gaza. E dunque al prezzo dell’ennesimo inaccettabile sacrificio di migliaia di civili e bambini palestinesi, che ora devono fronteggiare anche il pericolo di epidemia nell’enclave. Alla fine lo schema dell’intesa prevede la liberazione di 50 cittadini israeliani nel corso di quattro giorni di pausa dei combattimenti, che potrebbero anche essere prorogati. In cambio Hamas otterrà il rilascio di 150 palestinesi detenuti nelle carceri dello Stato ebraico. Sarà inoltre garantito l’invio degli aiuti umanitari e dell’assistenza necessaria a Gaza. Su questo punto, sarà consentito l’ingresso quotidiano nella Striscia di circa 300 convogli con generi di prima necessità, personale medico negli ospedali e carburante, soprattutto per le ambulanze. L’intesa prevede inoltre il divieto per i palestinesi sfollati al sud di tornare a nord della Striscia e lo stop per 6 ore al giorno dei droni israeliani.
L’intesa, come prevedibile, non ha riscontrato sorrisi da parte dei funzionari israeliani, con la frangia più estremista di destra guidata dal ministro Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich che ha votato contro. L’ago della bilancia è stato spostato dal “sì” (sempre sofferto) delle Idf, le Forze di Difesa israeliane, e dagli organi di intelligence Mossad e Shin Bet. La remora più grande per i difensori riguarda la concessione di una “vittoria” a Hamas, che userebbe la liberazione dei prigionieri palestinesi come una vera e propria arma di propaganda per agitare ulteriormente il mondo islamico contro lo Stato ebraico. Nel frattempo il ministero della Giustizia israeliano aveva pubblicato un elenco di 300 nomi di prigionieri palestinesi candidati a far parte del primo gruppo di detenuti destinati alla liberazione.
Dopo settimane di mediazione segreta con Usa ed Egitto, è stato il Qatar ad annunciare l’accordo che sbloccasse lo stallo degli oltre 230 civili israeliani catturati da Hamas durante il maxi attacco del 7 ottobre. Proprio il ministro degli Esteri qatariota, Mohammed bin Abdulaziz bin Saleh al Khulaifi, ha dichiarato che nel “primo giorno della pausa umanitaria verranno rilasciati almeno 10 ostaggi“. Le parti hanno quindi concordato rilasci sistematici, attraverso un programma che non è però stato reso noto. Liste con i nomi degli ostaggi israeliani verranno pubblicate giorno per giorno. Prima del nuovo stallo, le operazioni di rilascio e la relativa tregua del conflitto sarebbero dovute iniziare alle 10 del 23 novembre.
Fonti ufficiali libanesi hanno riferito che la tregua potrebbe essere estesa anche al confine nord di Israele. Ma soltanto “se Israele non violerà la pace e rispetterà i termini dell’accordo”, gli Hezbollah sono pronti a rispettare un cessate il fuoco, hanno affermato fonti del “Partito di Dio” ad Al Jazeera, precisando che pur non essendo stati coinvolti nei negoziati sospenderanno gli attacchi dal Libano (qui spieghiamo perché quella di Israele è una guerra contro il tempo).
Cosa è stato deciso sugli ostaggi: si farà o no? E dopo?
Dietro all’ultimo stop allo scambio di prigionieri c’è dunque Hamas, che fino a giovedì mattina non aveva sicuramente ancora ratificato l’accordo raggiunto con Israele. Secondo fonti israeliane e la Casa Bianca, “il ritardo non deriva da una rottura dei colloqui“, ma dalla definizione dei “dettagli logistici finali”. Da Mosca è però arrivato un ariete che apre una breccia nello sbarramento. Secondo quanto annunciato dall’ambasciatore israeliano in Russia, Alexander Bin Zvi, il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza inizia il 24 novembre e il trasferimento degli ostaggi sarà effettuato attraverso il Valico di Rafah.
Notizia poi confermata dall’influente Qatar, che aggiunge specifiche sugli orari: la tregua inizierà alle 7 (ora locale), mentre i primi ostaggi saranno liberati nel pomeriggio. Nel dettaglio, i primi 13 ostaggi nelle mani di Hamas saranno liberati intorno alle 15 italiane (le 16 locali). L’ultima conferma di modalità e tempistiche è poi giunta anche dalla stessa Hamas. Poi è intervenuto anche l’Egitto, per bocca del capo dell’ufficio stampa del governo, Diaa Rashwan, il quale ha confermato di aver ricevuto gli elenchi dei detenuti e dei prigionieri palestinesi e israeliani. Da Il Cairo arriva però un dettaglio in più sui numeri: nel pomeriggio del 24 novembre saranno liberati 13 ostaggi in cambio di 39 prigionieri palestinesi. I 13 israeliani sono donne e bambini della stessa famiglia, tenuti in prigionia a Gaza.
Da parte sua, Hamas ha avanzato ulteriori richieste per concludere l’accordo sul rilascio dei civili sequestrati, come rivelano fonti di intelligence. Si viaggia dunque di nuovo verso uno stallo, con Benjamin Netanyahu che adesso “spera di liberare gli ostaggi israeliani. Non mancheranno le sfide, ma dobbiamo farlo e speriamo di far uscire questo primo gruppo. Poi ci impegneremo a farli uscire tutti”. “Poi”, “vedremo”, futuro. E se i margini delle trattative per gli ostaggi si assottigliano, figurarsi quelli per la cessazione del conflitto. Lo stesso premier di Israele ha poi dichiarato di aver ricevuto una lista preliminare degli ostaggi che saranno liberati. Ostaggi, negoziati, propaganda, occupazione, belle parole di attori stranieri, accordi segreti, interessi globali: questa scena l’abbiamo già vista tante, troppe volte negli ultimi 80 anni, e la guerra non si è mai conclusa.
Intanto l’intransigente ministro israeliano Ben-Gvir si è riunito con i vertici della polizia e dei servizi carcerari per discutere della gestione della reazione popolare dopo l’annunciato rilascio di circa 150 prigionieri palestinesi. Risultato: il capo del servizio carcerario israeliano il commissario di polizia hanno avuto mandato di annullare i tentativi di celebrare lo scambio di prigionieri all’interno delle strutture carcerarie. Ben-Gvir ha anche disposto l’aumento della presenza di agenti nelle destinazioni dei prigionieri rilasciati, per coloro che verranno liberati all’interno della Linea Verde di Israele.
Israele e Hamas hanno commesso crimini di guerra?
Come si è arrivati all’accordo: il ruolo centrale del Qatar
Ormai non è più un segreto: all’accordo tra Israele e Hamas si è arrivati grazie soprattutto alla mediazione del Qatar, storico alleato e finanziatore del partito armato palestinese (ecco chi sostiene i guerriglieri palestinesi). Anche gli Stati Uniti e i loro sodali dell’Egitto hanno svolto un ruolo importante, come “controparte” dell’intesa. D’altronde, Il Cairo è stato investito proprio da Washington del ruolo di “mediatore” tra la galassia israeliana e quella arabo-palestinese. Il potere diplomatico dirimente è però in capo al socio persico, eletto dagli Usa a garante mediorientale e al contempo banca e rifugio per i militanti di Hamas. Almeno dal 2012 quando, d’accordo con gli stessi Stati Uniti, il Qatar ospitò nel proprio territorio il primo ufficio politico dei fondamentalisti.
Il Qatar è stato ed è infatti meta dei leader delle truppe fondamentaliste sunnite, che da Doha coordinano le operazioni nella Striscia, ed è sede di un grande strumento utilizzato come mezzo di propaganda in tutto il globo: Al Jazeera. Il sostegno economico dell’emirato ai fondamentalisti della Striscia di Gaza è cruciale e può spezzare qualunque stallo militare o diplomatico. Al punto che anche il Segretario di Stato americano Antony Blinken si è recato a ottobre a Doha per incontrare l’emiro Cheikh Tamim ben Hamad Al-Thani. Il doppio gioco qatariota si fa triplo e oltre quando si parla di Stati Uniti, che si appoggiano sul piccolo Stato del Golfo su più tavoli negoziali, dall’Afghanistan dei talebani all’Iraq conteso fino al nemico per eccellenza Iran. Il Qatar ospita inoltre migliaia di soldati americani nella base aerea di Al Udeid, una delle più grandi dell’intera penisola arabica.
Il Qatar, come gli Emirati Arabi Uniti, mira a controllare economicamente e geopoliticamente Israele e Palestina per contare su una piattaforma privilegiata per espandere questa sua influenza anche al resto del Mediterraneo orientale. E anche oltre. Una zona in cui si esprime l’imperialismo anche di un’altra potenza “oscura” che manovra da dietro le quinte del Medio Oriente: la Turchia. Concorrente dell’Iran come guida della missione panislamica – né iraniani né turchi sono popoli arabi, dunque non possono competere sul piano del panarabismo coi sauditi per far presa sugli Stati musulmani – Ankara protegge e sostiene la Fratellanza Musulmana, e quindi Hamas e Jihad Islamica, dal punto di vista militare e politico. Anni fa Erdogan si è proposto come difensore di Gerusalemme, impartendo un’essenziale svolta strategica alla narrazione turca: guida e protettrice della Cupola della Roccia, importante per l’Islam al pari di Mecca e Medina. Il tutto utilizzando la potenza finanziaria del Qatar, che si conferma così la vertebra fondamentale di questo gioco delle parti.
La capacità qatarina di competere con i due giganti tra i quali è stretto, Iran e Arabia Saudita, risiede dunque nelle enormi risorse finanziarie e nella spregiudicatezza nel tessere relazioni economiche poco trasparenti e senza troppi scrupoli. Per quanto riguarda il conflitto israelo-plaestinese, il ministro qatariota al Khulaifi fa sapere che gli sforzi del Qatar continueranno anche dopo il cessate il fuoco: “Intendiamo mantenere il dialogo con entrambe le parti per smorzare l’escalation anche in futuro. Il nostro scopo è quello di lavorare per un obiettivo più sostanziale e duraturo”. Propaganda, più che pia illusione.