Il mondo sembra impazzito, ma in realtà è rimasto sempre lo stesso. È il mondo delle potenze in lotta per l’egemonia e, dunque, delle guerre. Nelle ultime due settimane abbiamo però assistito a escalation e allargamento del conflitto in Medio Oriente, che ora si dipana su quattro fronti caldi, per non dire bollenti: l’ormai tragicamente consueto Israele-Gaza (con la Striscia ridotta a fame e macerie); la frontiera tra Siria, Libano e Cisgiordania; lo Yemen degli Houthi e il Mar Rosso; l’Iran, che ha bombardato Siria, Iraq e perfino il Pakistan.
Proprio quest’ultimo è stato protagonista di un botta e risposta violento con Teheran. Islamabad ha anche richiamato il proprio ambasciatore ed espulso dal Paese quello iraniano. Gli attacchi reciproci nel territorio confinante non sembrerebbero tuttavia preludere all’apertura di un altro fronte di guerra, anche se rappresentano un deciso contributo alla crescita dell’instabilità internazionale. Ecco cosa sta succedendo.
Perché l’Iran ha bombardato (anche) il Pakistan
Dopo aver compiuto raid nei pressi di Aleppo, in Siria, e a Erbil, in Iraq, l’Iran ha bombardato con missili e droni anche la periferia di Panjur, nell’estremo ovest del Pakistan. Di tutta risposta, il Paese asiatico il 18 gennaio ha colpito Saravan, nell’estremo est dello Stato confinante. In entrambi gli attacchi sono morti diversi civili. Dando uno sguardo d’insieme sulla cartina geografica, l’impressione è che l’Iran stia attaccando simultaneamente di proposito su più fronti, per allargare il conflitto. In realtà non è così.
In Siria, ad esempio, Teheran ha attaccato basi operative dell’Isis come “atto di vendetta” per l’attentato terroristico sferrato il 3 gennaio a Kerman, uccidendo 80 persone che pregavano sulla tomba dello storico generale pasdaran Qassem Soleimani, e rivendicato proprio dal sedicente Stato Islamico. In Pakistan, invece, l’Iran ha bombardato postazioni di un altro gruppo considerato terroristico: Jaish al-Adl, movimento fondamentalista sunnita che usa la violenza per chiedere l’indipendenza del Belucistan. Quest’ultima è espressione geografica dell’etnia di ceppo iranico dei Beluci, migrati da ovest intorno all’Anno Mille, ma che dal punto di vista politico è divisa e amministrata da Iran, Afghanistan e Pakistan.
Secondo Teheran, il gruppo Jaish al-Adl sarebbe responsabile di attacchi compiuti in terra iraniana. Il Pakistan, dal canto suo, avrebbe invece preso di mira il Fronte di Liberazione del Belucistan, che a sua volta ha compiuto attentati su suolo pakistano e dopo si è rifugiato in Iran. Anche se la sensazione è quella di un risiko incontrollabile, il botta e risposta violento tra i due Paesi non sarebbe dunque un preludio di guerra.
L’accordo di de-escalation: Teheran e Islamabad non vogliono la guerra
Subito dopo la crisi, infatti, Iran e Pakistan hanno siglato un accordo di de-esclation e il ritorno dei rispettivi ambasciatori nelle due capitali. Il governo pakistano ha ribadito le “relazioni fraterne” tra i due Paesi, basate su uno “spirito di fiducia reciproca e di cooperazione”, nel rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità nazionale. “Non c’è alcun interesse o desiderio per un’escalation militare con l’Iran”, ha dichiarato il ministro degli Esteri Jalil Abbas Jilani. Come ricordato anche durante il World Economic Forum di Davos (che ha realizzato la top 10 dei maggiori rischi globali), l’Iran considera il Pakistan un “amico fraterno” fondamentale nella lotta al terrorismo locale, che rappresenta uno dei maggiori timori per entrambi i Paesi.
La distensione è comunque arrivata dopo giorni di attacchi e tensioni che sembravano davvero rompere le relazioni strategiche tra Teheran e Islamabad. Relazioni che tuttavia sono di facciata e opportunistiche, poiché fra i due Stati permangono da decenni dissidi che affondano le radici in questioni etniche. Il centro di tali questioni è in particolare la regione iraniana, a maggioranza sunnita, del Sistan Baluchistan, che confina con Pakistan e Afghanistan. Iran e Pakistan si accusano a vicenda di ospitare gruppi di separatisti Beluci lungo i mille chilometri di frontiera comune che non a caso si sono infiammati negli ultimi tempi.
C’è anche un’altra chiave di lettura. Non essendo in grado di sostenere una guerra, il Pakistan ha subito cercato una via d’uscita con l’Iran, a sua volta concentrato sul fronte mediorientale in opposizione a Usa e Israele. Per due anni il Pakistan ha lottato contro una profonda crisi economica e politica, l’aumento degli attacchi militanti e l’inasprimento delle relazioni con un altro vicino un tempo “amico”: l’Afghanistan dei talebani. Il tutto, è bene ricordarlo, con sullo sfondo l’eterno scontro con l’India, nemico per antonomasia. Un fronte aperto con l’Iran sarebbe del tutto ingestibile e pericolosissimo per la tenuta dello Stato. In altre parole: il Pakistan non potrebbe trovarsi in situazione peggiore per impegnarsi in una guerra.
L’importanza strategica del Belucistan
Oltre alle questioni etniche e di frontiera, sempre strategiche di per sé, il Belucistan rappresenta una regione cruciale anche perché teatro privilegiato dell’interesse economico della Cina (che in Asia Centrale ha interessi enormi assieme a Russia e Usa) che si è imposta come mediatore tra Iran e Pakistan. Questo arido angolo dell’Asia è uno snodo infrastrutturale e logistico fondamentale per gli interessi continentali e mondiali, visto che è presente anche uno sbocco sul Mar Arabico, e dunque sull’Oceano Indiano, a due bracciate dal Golfo di Oman, con lo strategico porto di Gwadar al centro delle Nuove Vie della Seta cinesi. Ragion per cui Pechino ha investito nella regione miliardi e miliardi di dollari in mega progetti.
Il Belucistan è inoltre contenitore della più grande provincia pakistana, della quale costituisce il 48% del territorio, oltre che delle regioni iraniane del Sistan e del Belucistan e delle province afghane di Kandahar, Helmand e Nimruz. In tutto si contano circa 12,5 milioni di abitanti, per la maggior parte Beluci, anche si parlano diffusamente anche la lingua pashtu, il persiano e il brahui. Il valore di queste terre è dato anche da cosa vi si trova sotto: e cioè grandi risorse minerarie e un importante gasdotto.
Come in centinaia di casi analoghi, le diatribe etniche sono sfruttate dagli egemoni regionali per i propri interessi strategici. Il gruppo etnico predominante e trasversale ai tre Paesi “controllori”, i Beluci, hanno dato vita a numerose guerre separatiste per conquistare l’indipendenza nazionale. Guerre combattute sia in territorio iraniano sia pakistano. In quest’ultimo, i separatisi chiedono maggiore autonomia (una consistente fetta di Beluci la preferisce addirittura all’indipendenza tout court) e una maggiore fruizione delle risorse naturali della regione, in particolare in campo minerario, accusando il governo di Islamabad di violazione dei diritti umani, inclusi rapimenti e torture di dissidenti.
Nel 2019 gli Stati Uniti hanno inserito l’Armata di Liberazione del Belucistan nella lista dei gruppi terroristi. In Iran, invece, il movimento separatista del Belucistan ha acquisito maggiore forza e spazio nell’ultimo decennio, con una maggioranza islamica sunnita che combatte contro la leadership sciita di Teheran. Le velleità contro i due Stati che li stringono in mezzo sono però molto ridimensionate dal punto di vista tattico e militare: sia i ribelli sunniti contro l’Iran sia i separatisti Beluci contro il Pakistan non dispongono infatti di abbastanza militanti e armi per minacciare seriamente i governi centrali.