Del doman non c’è certezza, ma i dubbi sono sempre meno. L’Ucraina sta dolorosamente e lentamente accettando di non poter vincere la guerra contro la Russia sul campo. Soprattutto dopo la vittoria di Trump nelle presidenziali americane, con tutto il suo carico di disimpegno materiale nei confronti del Paese invaso.
L’apertura a Mosca da parte della futura amministrazione mette idealmente una pietra sopra le speranze di contrattacco ucraino, rinverdite per brevissimo tempo dopo l’incursione nell’oblast russo di Kursk. Il rischiatutto di Kiev era sublimato in un fantomatico “piano della vittoria” in quattro punti annunciato in gran pompa da Zelensky. Che ora è diventato “piano della resilienza” in dieci punti, con emblematico cambio di lessico alla luce delle innegabili difficoltà materiali – e ora anche diplomatiche – di esercito e governo.
Il nuovo “piano della resilienza” in 10 punti annunciato da Zelensky
Il titolo originale del nuovo programma di Volodymyr Zelensky è план стойкости (plan stoykosti), che sarà presentato ufficialmente la prossima settimana. A neanche un mese di distanza dal План победы (plan pobedy, “piano per la vittoria”) che a metà ottobre era stato annunciato alla Verkhovna Rada, il Parlamento monocamerale ucraino. Inevitabile il cambio di traiettoria dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Il vecchio documento conteneva clausole sul percorso del Paese verso la Nato, sul rafforzamento della capacità di difesa e sull’installazione sul territorio ucraino di un “pacchetto deterrente strategico completo non nucleare” per il contenimento della Russia. Mosca si era ovviamente opposta all’ingresso di Kiev nell’Alleanza Atlantica, definendo l’iniziativa un “piano mascherato” degli Stati Uniti per proseguire il conflitto per procura.
Il “piano di resilienza”, ancora in fase di elaborazione secondo il comunicato ufficiale, verterà sul futuro sociale, civile, finanziario e infrastrutturale dell’Ucraina. I punti riguarderanno infatti il fronte, il complesso militare-industriale, l’economia, la finanza, la sfera dell’informazione, il complesso della giustizia, le attività regionali e altri settori strategici. Una delle principali preoccupazioni di Kiev è diventata la salvaguardia della comunità culturale ucraina, come se implicitamente ammettesse la frammentazione del territorio a beneficio russo e l’annesso pericolo di russificazione di ampie parti di popolazione.
Il livello militare e il connesso auspicio di “vittoria” si è invece rarefatto nei testi governativi, proiettando il programma di fatto già al dopoguerra, senza esplicitarlo. “Per ogni punto, insieme a tutti quelli che sono pronti a contribuire con idee razionali, insieme alle aziende, prepareremo un documento fondamentale e dottrinale per l’Ucraina e per la nostra resilienza. Passo dopo passo”, ha dichiarato Zelensky citato da Ukrainska Pravda. Per salvare le apparenze e non affossare il morale e le speranze di soldati e cittadini, la propaganda non può certamente fare a meno del termine “vittoria”. E difatti il presidente ucraino ha spiegato che il piano si concentra sullo sfruttamento delle capacità interne del Paese per ottenere la vittoria, “affinché possiamo giustamente rivendicare quella parola. Ognuno di noi, ogni ucraino. Milioni di persone che sognano di porre fine a questa guerra in un modo che sia giusto per l’Ucraina e che lavorano e combattono per raggiungere questo obiettivo”.
Con la presidenza Trump molto cambierà e tanto è di fatto già cambiato, ma non tutto. La Russia resta un nemico esistenziale, ma col quale gli apparati americani ora vogliono inaugurare un qualche dialogo per congelare le ostilità e concentrarsi sul fronte ben più strategico dell’Indo-Pacifico e della competizione con la Cina. Il 12 novembre il Financial Times aveva riferito che Kiev aveva iniziato ad adattare il suo “piano della vittoria” alla futura amministrazione Trump già in estate, alla luce della fredda risposta di Joe Biden (ritiratosi dalla corsa per le rielezione) sul mantenimento del supporto militare al Paese invaso.
Come il nuovo corso americano condiziona la guerra in Ucraina
“Sotto l’amministrazione Trump, la guerra della Russia contro l’Ucraina finirà prima, anche se non esiste una data esatta”, ha tentato di stemperare Zelensky rilasciando un’intervista dopo l’altra nello stesso giorno in cui Vladimir Putin ha ammesso di intrattenere contatti col cancelliere tedesco Olaf Scholz. Consapevole della conseguente rottura dell’isolamento di parte dell’Ue nei confronti del Cremlino, il presidente ucraino si è affrettato a dichiarare che si è sviluppata “un’interazione costruttiva” col presidente americano eletto, aggiungendo che il tycoon gli ha chiesto di partecipare ai negoziati con Mosca.
“Siamo un Paese indipendente. E noi durante questa guerra abbiamo dimostrato che la retorica del ‘siediti e ascolta’ non funziona”, ha sottolineato il leader ucraino. La retorica è però di fatto ciò che Trump ha in programma per i colloqui di pace russo-ucraini, checché ne dica Zelensky. La presenza degli americani al tavolo dei negoziati è inoltre condizione inderogabile per i russi, che vogliono parlare da pari a pari soltanto con la delegazione di Washington. “Putin non vuole la pace, vuole una pausa”, ha poi notato giustamente Zelensky. Ed è così, allineandosi in questo modo sulla stessa lunghezza d’onda della futura amministrazione statunitense.
Putin e soci non accetteranno alcuna condizione diversa dal riconoscimento delle conquiste territoriali russe in Donbass, fascia del Mar Nero, Kherson, Zaporizhzhia e Crimea. Non solo: il Cremlino pretende garanzie scritte sulla neutralità dell’Ucraina e la revoca delle sanzioni occidentali. In altre parole: il Paese non dovrà entrare nella Nato, privilegiando invece un’unione politico-economica con l’Unione europea che prenderebbe due piccioni con una fava per le due potenze mondiali. Primo piccione: delegare agli Stati europei lo sforzo (e gli affari) per la ricostruzione e la difesa di Kiev, disimpegnando gli stanchi Usa. Secondo piccione: evitare l’indebolimento ulteriore di una Russia che rischia di finire preda della Cina, nell’ambito della rete di imperi cooperanti (anche con l’Iran) che vogliono scalzare l’egemonia americana sul pianeta. O, almeno, in Eurasia.
L’Ucraina paga anche la grave emergenza demografica
La debolezza ucraina è dimostrata anche dai dati sulla sua demografia squassata da quasi tre anni di guerra, ai quali si sommano gli altri sette di conflitto del Donbass. I numeri dell’American Quincy Institute for Responsible Public Administration legano la crisi della popolazione al rischio dell’esistenza del Paese come entità statale. Secondo le ultime stime, nel Paese invaso vivono attualmente 29 milioni di persone, rispetto ai 48,5 milioni del 2001. È difficile calcolare il numero esatto e l’ultimo censimento risale a più di vent’anni fa.
Su 11 milioni di uomini ucraini di età compresa tra i 25 e i 60 anni, ben 7,4 sono già stati mobilitati o sono completamente inabili al servizio o sono impiegati in settori critici e non possono essere richiamati. Allo stesso tempo, il tasso di natalità ha raggiunto il minimo storico. Lo stato di guerra, la mobilitazione coatta con metodi violenti e la corruzione endemica hanno contribuito e contribuiscono tuttora alla fuga di giovani che immaginano il loro futuro lontano dall’Ucraina.
Gli analisti sottolineano come, anche in presenza di un rinnovato supporto militare al Paese, mancherebbero le persone in grado di imbracciare le armi. Inoltre, anche se la sopravvivenza finanziaria dello Stato fallito ucraino è garantita dall’assistenza esterna, nel 2024 ogni persona chiamata alle armi ha un effetto decisamente maggiore sull’economia locale rispetto al 2022 o 2023. Il che ci offre una considerazione avvilente: ogni giorno di combattimenti rinvia il crollo del regime di Kiev, ma allo stesso tempo riduce le prospettive di mantenimento dell’unità statale nel prossimo futuro per ragioni puramente demografiche.
Come cambiano i piani (e il destino) dell’Ucraina
Il gran consigliere di Zelensky, Mikhail Podoljak, ha annunciato parte delle modifiche al piano ucraino. Il nuovo impianto comprendeva una proposta agli Stati Uniti di sostituire parzialmente il contingente americano in Europa e di sviluppare (leggi: cedere) l’industria e l’estrazione di minerali rari nel Paese (in primis gli strategici litio e titanio) in cambio di una crescente pressione sulla Russia.
Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, aveva definito “schizofrenico” il “piano della vittoria” di Zelensky, sottolineando che le sue proposte non porteranno la pace in Europa. Il Cremlino aveva inoltre osservato che la vecchia strategia ucraina non dava seguito a negoziati e che aumentare la pressione sulla Russia era inutile. L’avvento di Trump e il conseguente scossone geopolitico globale ha poi portato Mosca a dirsi pronta a negoziare “tenendo conto dei reciproci interessi legittimi”.
Alla fine della fiera, come si suol dire, l’Ucraina ha capito che dovrà scendere a compromessi e che con Trump non sarà più considerata come la punta di lancia dell’Occidente contro la Russia. Già con lo scoppio della guerra in Medio Oriente il fronte ucraino era diventato estremamente scomodo e impegnativo per gli Stati Uniti, che ora intendono dare una sferzata diplomatica allo stallo del conflitto. In soldoni: se la Russia vince la guerra, impone un rinnovato impegno americano in Europa e distrae Washington dalla competizione con la Cina. La via maestra diventa dunque quella di far accettare a Kiev una versione limitata di “vittoria”, nascondendo una sconfitta di fatto dietro il velo della retorica. L’Ucraina dovrà cioè riconoscere di aver perso nominalmente i territori occupati dai russi e in cambio riceverà di armi, sovranità e appoggio finanziario (da parte degli europei), ma non potrà entrare nella Nato. D’altronde senza un deciso cambio di marcia, Mosca ha tutti i mezzi e le risorse per attendere la conclusione della guerra di logoramento. E alla fine vincere lo stesso, ma senza possibilità d’appello da parte degli avversari e senza compromessi negoziali.