Turchia “hub” russo: maschera il petrolio di Mosca per venderlo all’Ue

Nel sistema con cui la Russia aggira le sanzioni occidentali, Ankara svolge un ruolo centrale. Ecco come nei porti turchi i carichi e i barili di petrolio russi ricevono nuove etichette e vengono "camuffati"

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La Turchia è un Paese membro della Nato che non gioca del tutto con l’Occidente. Quasi per niente, a dire il vero, esercitando la sua proverbiale “ambiguità” tra acrobazie diplomatiche e affari con gli avversari degli Usa. Uno su tutti: la Russia. Se da un lato Ankara ha fornito droni all’Ucraina, dall’altro ha coltivato un flusso commerciale con Mosca che riguarda soprattutto il petrolio.

Volendo utilizzare una terminologia abusata, potremmo dire che la Turchia è diventato un “hub” per gli idrocarburi russi, dei quali cancella la provenienza per rivenderli agli Stati Ue fingendo che sia roba sua. L’ennesimo ingegnoso escamotage per aggirare le sanzioni europee contro l’export di petrolio e prodotti petroliferi raffinati russi.

Petrolio dalla Russia all’Ue passando per la Turchia

Certo, il termine “hub” forse presuppone una certa passività o sudditanza nei confronti del Paese produttore. Non è il caso della Turchia, le cui velleità geopolitiche sono imperiali esattamente come quelle della Russia. E il cui ruolo per l’export di petrolio e prodotti petroliferi raffinati è cruciale per Mosca, che in questo modo può scavalcare a piè pari le sanzioni dell’Ue e venderle barili “camuffati” per miliardi di euro. Come riporta Politico, che cita il Centro per la ricerca sull’energia e l’aria pulita (Crea) e il Centro per lo studio della democrazia (Csd), nelle casse del Cremlino sono finiti oltre 3 miliardi di euro nei 12 mesi successivi all’embargo dei carburanti russi da parte di Bruxelles (febbraio 2023). Le operazioni di rietichettatura dei barili russi avvengono principalmente in tre porti turchi, grazie a una “falla” nella normativa europea che rende tutto questo giro perfettamente legale.

Ankara si è imposta come “una tappa strategica per i prodotti combustibili russi dirottati verso l’Unione europea”, ha spiegato Martin Vladimirov, analista energetico senior del Csd. Come prova di questa realtà Politico cita un episodio recente, in cui una petroliera è arrivata nel terminal di Toros Ceyhan in Turchia, ha ricevuto un carico di 150mila barili di gasolio ed è ripartita per un viaggio di tre giorni verso la raffineria Motor Oil Hellas, nel sud della Grecia. “Apparentemente il carburante era turco e per di più le autorità elleniche sostengono di non accettare carichi con etichetta russa”, in conformità con il divieto imposto dall’Ue. Report e indagini hanno però evidenziato che la spedizione consisteva proprio in petrolio russo “camuffato con nuovi contrassegni”.

Come fa tutto questo a essere legale? Al centro del meccanismo c’è una falla regolamentaria possibile: si tratta di una deroga alle sanzioni di Bruxelles che consente l’ingresso in Europa di carburanti “miscelati” se etichettati come “non russi”. Secondo Politico, questa pratica fa parte di una tendenza molto più ampia. “L’escamotage illustra i modi creativi con cui il Cremlino aggira le sanzioni occidentali per proteggere il suo commercio di combustibili fossili, che costituisce quasi la metà del bilancio russo e offre un’ancora di salvezza vitale per la sua campagna militare” in Ucraina.

Il ruolo della Turchia

La Turchia dispone di raffinerie in grado di processare quasi un milione di barili di greggio al giorno, non certo tutto proveniente dalla Russia. Ma la maggior parte lo è. Il porto sud-orientale di Ceyhan, ad esempio, può contare su collegamenti stradali e ferroviari limitati con le raffinerie situate nell’entroterra, il che rende molto difficile che possa ricevere grandi carichi di carburante se non via mare. Tra febbraio 2023 e febbraio 2024 il porto ha assorbito circa 22 milioni di barili, il 92% dei quali proveniva dalla Russia: il triplo della quantità importata da Mosca l’anno prima. Nello stesso periodo, l’85% delle esportazioni di carburante dal porto erano destinate ai Paesi europei. Tre indizi fanno una prova: le forniture russe venivano smistate cambiando semplicemente etichetta.

Dati e traffici simili sono stati registrati anche in altri due porti: quello occidentale di Marmara Ereğlisi e quello meridionale di Mersin. I proprietari e gli operatori dei tre terminal sono: Toros Terminal a Ceyhan, Turkis Enerji a Mersin e Opet a Marmara Ereğlisi. Per rendere davvero efficaci le sanzioni, gli Usa e i loro satelliti europei devono applicare fattivamente sanzioni secondarie, ossia disconnettere dal circuito Swift le banche straniere che fanno affari con Mosca. Un gioco tuttavia troppo rischioso da fare con la Turchia, che resta un alleato cruciale per la Nato.

Petrolio sul fuoco: le sanzioni Ue non fermano gli affari russi

Tra febbraio 2023 e febbraio 2024, la Turchia ha aumentato le importazioni dalla Russia del 105% rispetto all’anno precedente. Nello stesso periodo, le esportazioni turche di carburante verso l’Ue sono aumentate del 107%. Singolare coincidenza, confermata da un modus operandi che Mosca aveva già evidenziato nel 2023, quando incassò oltre un miliardo di euro grazie a un’altra “scappatoia”. Stavolta le sanzioni europee erano state aggirate tramite la Bulgaria, mentre il provvedimento del G7 per limitare il commercio di petrolio russo a 60 dollari al barile è in gran parte fallita. La profonda dipendenza energetica di un Continente non poteva essere scalzata via con qualche firma, a quanto pare. Prima dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, gli Stati Ue importava dalla Russia oltre un quarto del petrolio che utilizzava e circa il 40% delle sue forniture di diesel.

Così, mentre a Bruxelles si discute il 14esimo pacchetto di sanzioni contro Cremlino e associati, le relazioni tra Ue e Turchia si fanno sempre più tese. La scelta di Ankara di non allinearsi alle misure statunitensi contro Mosca mostra una volta in più il “doppio gioco” dell’ex potenza ottomana. C’è da dire che anche Bruxelles ci mette del suo. Secondo le norme comunitarie, i carichi contenenti carburante russo mescolato con prodotti provenienti da altri Paese “potrebbero essere soggetti a sanzioni a seconda della percentuale della componente proveniente direttamente dalla Russia“. Tutto si gioca però sul grado di trasformazione che i combustibili hanno subìto, in molti casi “sostanziale” al punto da configurare la fornitura come “completamente nuova”. E cioè: non più russa. Nella pratica, c’è un documento che attesta la provenienza del carico, chiamato “certificato di origine”. Importare carburanti con documenti russi è illegale secondo la legislazione Ue, ma il semplice cambio di etichetta da parte della Turchia con un nuovo certificato turco non lo è affatto.

Un portavoce della Commissione europea ha rifiutato di commentare i casi specifici, sostenendo che spetta ai singoli Paesi “implementare e far rispettare le sanzioni”. L’autorità doganale greca, da parte sua, ha dichiarato a Politico di effettuare “controlli adeguati sia nella fase di sdoganamento sia in quella successiva”, concludendo che “a oggi non è stata rilevata alcuna violazione”. Vista la sostanziale resistenza turca ad aderire alle sanzioni antirusse, “non sembra esserci molta speranza che cambi qualcosa”, ha detto Amanda Paul, analista senior ed esperta di Turchia presso il think tank European Policy Center. Le importazioni e le riesportazioni del petrolio russo più economico si sono rivelate “molto vantaggiose” per Ankara, in un momento in cui il Paese è alla prese con un’inflazione alle stelle e una valuta in caduta libera.