Siria, l’operazione dei ribelli Hts contro Assad era stata pianificata un anno fa

L'offensiva degli insorti non è stata improvvisata, ma ha avviato i preparativi già dopo il maxi attacco di Hamas contro Israele nell'ottobre 2023. Ora però viene il difficile, perché la Siria è chiamata a ritrovare una stabilità interna

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 15 Dicembre 2024 18:28

Un’offensiva totale e capillare come quella che i ribelli dell’Hts hanno compiuto in Siria non poteva essere improvvisata o frutto di una rapida programmazione. La caduta del governo di Bashar al-Assad, fuggito in Russia, era infatti stata pianificata un anno fa.

Il fronte anti-regime, seppur variegato, ha poi incontrato l’occasione propizia del momento di debolezza vissuto da Russia, Iran e Hezbollah. E il contemporaneo supporto delle potenze antagoniste, cioè Turchia e Stati Uniti, che hanno spinto gli eventi fino alla rottura dello status quo. Ora però comincia la vera sfida: riportare la stabilità, o perlomeno una “bassa instabilità”, all’interno del Paese.

Un’offensiva pianificata a lungo

L’operazione dei ribelli siriani era stata studiata già nei minimi dettagli già nell’autunno 2023, in concomitanza con lo sconvolgimento storico portato dal maxi attacco di Hamas a Israele. Dopo un anno, gli eventi e la situazione si sono mostrati talmente propizi da andare ogni oltre aspettativa anche per gli stessi miliziani anti-Assad. Nei due giorni di rovesciamento del regime è stata dispiegata una nuova unità di droni e si è assistito a uno stretto coordinamento tra i gruppi di opposizione in tutto il Paese. Non era affatto scontato. A rivelare il piano è stato l’alto comandante militare dell’Hayʼat Taḥrīr al-Shām (Hts). Nella sua prima intervista con i media stranieri, concessa al Guardian, Abu Hassan al-Hamwi, capo dell’ala militare del gruppo jihadista, ha raccontato di come la sua formazione – che aveva sede nel nord-ovest del Paese – abbia comunicato con i ribelli del sud per creare una “war room” unificata. Lo scopo comune era di circondare Damasco da entrambe le direzioni.

Dal 2019, l’Hts ha sviluppato una dottrina militare utile a trasformare i combattenti provenienti da diverse formazioni in una forza disciplinata. In altre parole: è riuscito a guidare la rivolta, senza clamore e tenendola segreta fino al momento giusto, e di unire un fronte eterogeneo. “Dopo l’ultima campagna, nell’agosto del 2019, durante la quale abbiamo perso un territorio importante, tutte le parti rivoluzionarie si sono rese conto che non c’era una leadership”, ha dichiarato al-Hamwi da Jableh, un’ex roccaforte del regime. Dopo una battaglia finale, al termine della quale la Turchia ha negoziato un cessate il fuoco per conto delle forze di opposizione nella primavera del 2020, gli insorti sono stati confinati in una piccola porzione di territorio nel nord-ovest della Siria.

In questi anni, l’Hts è diventato il gruppo predominante e ha riunito i comandanti di circa 25 fazioni del sud siriano. Il 29 novembre è scattata l’ora X, e il movimento islamista ha lanciato l’operazione, entrando ad Aleppo, polo industriale del Paese. La rapida caduta della città, la seconda più grande della Siria, ha stupito gli stessi insorti. “Avevamo la convinzione, supportata da precedenti storici, che Damasco non può cadere finché non cade Aleppo”, ha sottolineato ancora al-Hamwi. L’avanzata dei ribelli nel nord è stata inarrestabile: quattro giorni dopo, hanno conquistato Hama, mentre il 7 dicembre è iniziata l’offensiva su Homs, caduta in poche ore, per iniziare l’avanzata verso Damasco. Il giorno dopo, Bashar al-Assad ha lasciato il Paese. La tabella di marcia prevedeva anche la possibilità di un assedio, paventando una durata dell’offensiva decisamente superiore.

La Siria resta ancora preda della violenza

Mentre ancora festeggia la liberazione dall’autocrazia della dinastia Assad, al potere per mezzo secolo, la Siria mostra però ancora una situazione estremamente complessa e violenta sul terreno. In diverse zone del Paese si registrano focolai di scontri in diverse zone del Paese. Nel nord, nelle zone finora controllate dalle Forze democratiche siriane (Fds, coalizione di milizie a maggioranza curda sostenute dagli Stati Uniti) proseguono gli scontri con le fazioni armate legate alla Turchia, tra cui l’Esercito nazionale siriano (Ens) che ha lanciato l’operazione “Alba di Libertà” nel versante settentrionale. A Manbij, dopo giorni di combattimenti tra queste formazioni, è entrato in vigore un cessate il fuoco che durerà fino al 16 dicembre. Sulla carta l’obiettivo è facilitare le “intese umanitarie e di sicurezza, compreso il ritiro delle cellule delle Fds con le loro famiglie”, secondo quanto riferito dall’Ens. Il comandante in capo delle Fds, Mazloum Abdi, da parte sua, ha aperto al dialogo con la Turchia.

Intanto le forze curde e i miliziani filo-turchi stanno continuando a scontrarsi ad Ayn Issa, dove le forze armate di Ankara stanno fornendo supporto di artiglieria. Sono aumentate le tensioni anche a Raqqa, ex “capitale” dell’Isis nel nord della Siria, dopo che i residenti hanno iniziato a manifestare in diverse aree del centro della città contro le Fds. Secondo quanto riferito dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr) – ong con sede a Londra ma con una vasta rete di contatti sul territorio – le forze di sicurezza locali hanno imposto il coprifuoco a Raqqa e hanno portato rinforzi militari in città.

L’esercito turco ha inoltre bombardato con lanciarazzi le posizioni delle Fds nella campagna settentrionale di Hasakah, mentre aerei da ricognizione turchi sorvolano la regione. Nel frattempo il comandante delle Fds Abdi ha riferito che le forze curde “sono pronte a inviare una delegazione a Damasco” per intavolare colloqui con il governo di transizione.

I nodi ancora da sciogliere in Siria: manca un accordo interno

La Siria non è una, ma profondamente divisa al suo interno. Lo stesso fronte che ha portato al cambio di regime è variegato e composti di frange tornate a scontrarsi sul futuro del Paese. La domanda dunque diventa: ora che queste fazioni hanno raggiunto il comune scopo di cacciare Assad, cosa resta che ancora li unisce? All’apparenza nulla, se non la volontà inconfessata di non finire di nuovo preda delle potenze straniere. Vana speranza. E difatti l’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria, nota anche come Rojava, “non ha raggiunto ancora alcun accordo” con il governo transitorio che si è insediato a Damasco.

L’emittente curda Ronahi è stata la prima a diradare le notizie trapelate di recente in merito a un presunto accordo tra le Forze democratiche siriane e il governo ad interim. L’intesa garantirebbe alle forze curde di mantenere il controllo sulle loro aree nel nord-est del Paese, tra le province di Aleppo e di Deir el Zor. Ammesso e non concesso che si riesca a raggiungere e a mantenere la concordia interna, la nuova Siria dovrà passare a riorganizzare anche le relazioni con gli altri Stati. A partire da Israele, che si è già annessa un pezzo delle contese Alture del Golan, approfittando del caos. Una strada in salita, senza dubbio.