Cos’è il greenwashing, l’ecologismo di facciata

Scopri qual è il significato della parola greenwashing e di cosa si tratta. Ecco in cosa consiste e alcuni esempi

Oggi “essere green” è molto di moda. Alcune aziende pensano infatti che basti far finta di dimostrare un attaccamento all’ambiente e al pianeta per guadagnare punti in reputazione e immagine aziendale. Questo è il fenomeno del greenwashing. Ma perché le aziende dichiarano di essere eco-friendly quando in realtà non lo sono?

Si tratta a tutti gli effetti di una pratica ingannevole, usata come strategia di marketing da alcune aziende per dimostrare un finto impegno nei confronti dell’ambiente con l’obiettivo di catturare l’attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità, che oggi rappresentano una buona fetta di pubblico. Viene fatto attraverso campagne e messaggi pubblicitari o in qualche caso persino iniziative di responsabilità sociale.

L’obiettivo del greenwashing quindi è duplice: valorizzare la reputazione ambientale dell’impresa e ottenere i benefici in termini di fatturato (perché aumenta il bacino di clientela). Per fortuna, questa pratica è sanzionata in Italia dallo Iap e dall’Antitrust e ci si può quindi tutelare.

La Federal Trade Commission (FTC) americana è stata la prima a stilare, negli Anni Dieci del Duemila, delle linee guida per l’utilizzo di environmental marketing claims che impongono alle aziende chiarezza e trasparenza, non solo nel definire entità e portato del proprio impegno, ma anche, per esempio, nelle scelte stilistiche e linguistiche.

Oggi però i consumatori sono molto più attenti a certi argomenti e le aziende devono prestare molta attenzione perché è aumentata la consapevolezza e la conoscenza da parte del pubblico. Senza considerare i danni enormi che possono subire nel caso in cui venissero “scoperte” sia di natura economica che reputazionale.

Greenwashing: definizione ed esempi

Quando parliamo di greenwashing, intendiamo “un neologismo indicante la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente causati dalle proprie attività o dai propri prodotti”.

Ma nella pratica il greenwashing cos’è? Si tratta di una strategia di comunicazione adottata da imprese, organizzazioni o istituzioni politiche che comunicano un impegno e un attaccamento alle politiche ambientali che in realtà non esiste. Lo fanno perché in questo modo la loro immagine migliora, diventa positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale e attraggono il consumatore ecosensibile che così si immedesima nella filosofia, in realtà finta e inesistente, di queste realtà.

Per fare un esempio, un’azienda potrebbe dire, sul sito web, sui socia e nelle interviste, di impiegare prodotti riciclati o adottare processi produttivi sostenibili, quando in realtà non è così. Oppure vantarsi di aver adottato nuove pratiche sostenibili che in realtà ne mascherano altre che vanno a contraddire l’impegno adottato.

Il percorso del greenwashing

Non si tratta però di un fenomeno nuovo e a parlarne per la prima volta fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld che lo utilizzò nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, nascondendo in realtà una motivazione legata al risparmio economico (aveva a che vedere con un taglio nei costi di gestione).

Dagli Anni Novanta la pratica del greenwashing è andata intensificandosi e grandi aziende americane chimiche petrolifere, come ad esempio Chevron o DuPont, cercarono di spacciarsi come eco-friendly allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle pratiche tutt’altro che responsabili che in realtà l’azienda aveva in essere e che stavano causando danni significativi per l’inquinamento. Fu proprio questo caso a far diffondere il termine greenwashing, parola composta da green (ecologico) e whitewash (insabbiare, nascondere qualcosa).

Le aziende colpevoli di greenwashing quindi si proclamano sensibili ai temi ambientali pur non essendolo, dichiarando di seguire un processo lavorativo ecosostenibile che mirano a distogliere l’attenzione da altre dinamiche aziendali in realtà ben poco green.

Come le aziende fanno greenwashing

Tra i tanti modi in cui si può fare greenwashing sicuramente l’utilizzo di un linguaggio vago e approssimativo è il primo segnale di allarme o, al contrario, tanto gergale e tecnico da essere incomprensibile ai non addetti ai lavori. Allo stesso modo l’utilizzo di immagini suggestive, con prevalenza di tonalità di verde o di soggetti naturali che evocano un certo interesse del brand o del prodotto verso le questioni ambientali, possono trarre in inganno.

Un’azienda in campagna promozionale può sostenere che un prodotto sia green e a basso impatto ambientale esclusivamente sulla base di un set (molto) limitato di parametri come avviene, per esempio, con alcuni detergenti presentati come alternativa ecosostenibile dal momento che, durando di più, implicano il consumo di meno flaconi in plastica. Il problema è che non tengono conto che, nella maggior parte dei casi, contengono una concentrazione maggiore di derivati del benzene, altamente inquinanti.

Sono inoltre molto comuni slogan e proclami ambientalisti che, però, sono vaghi o rischiano di essere fraintesi da parte dei consumatori che non sono certo esperti di sostenibilità. Tanto più che, spesso, richiedono di essere interpretati alla luce di informazioni o conoscenze tecniche che non sempre sono accessibili al consumatore finale. Basti pensare a un brand di soft drink che dichiara di essere diventato più green quando la produzione di una sola lattina di bevanda zuccherata richiede l’impiego di oltre due litri di acqua potabile.

Greenwashing: altri esempi

Gli esempi di greenwashing spaziano dall’uso disinvolto di richiami all’ambiente nella comunicazione istituzionale come filosofia o mission alla comunicazione di prodotto come risultato di processi sostenibili. Tutto questo però non viene supportato da risultati reali e credibili sul fronte del miglioramento dei processi produttivi adottati o dei prodotti realizzati.

Fare greenwashing significa anche aderire a trovate di marketing che cercano di nascondere pratiche e situazioni decisamente negativi per l’azienda. Ad esempio, creare come gadget aziendale una bottiglietta per evitare lo spreco di plastica, quando magari quotidianamente il processo produttivo dell’azienda in questione non evita minimamente lo spreco e l’accumulo di tali risorse.

Tra i casi più noti di greenwashing c’è, senza dubbio, quello della compagnia petrolifera Chevron che sosteneva come i dipendenti della compagnia fossero impegnati attivamente nella tutela di orsi, farfalle, tartarughe. Molto conosciuto è anche il caso Coca-Cola Life che, qualche anno fa, parlò della sua bibita come un prodotto a basso contenuto calorico per la presenza della stevia al posto dello zucchero.

In Italia, tra i casi più noti di greenwashing c’è lo spot di Ferrarelle che pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 emessa con la tutela di nuove foreste: l’azienda è stata multata perché la definizione di “impatto zero” lascia intendere che la CO2 venga interamente compensata. Nel 2010 anche San Benedetto è stata multata per avere presentato la sua bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente” in diverse pubblicità. Infine, anche la bottiglie di Sant’Anna è stata multata nel 2012 perché nella pubblicità sull’eco-bottiglia riportava pregi ambientali superiori alla realtà.

In generale quindi nei casi più frequenti di greenwashing la comunicazione si caratterizza perché:

  • non vengono fornite informazioni o dati significativi che supportino quanto dichiarato nel messaggio pubblicitario;
  • vengono date informazioni e dati dichiarandoli certificati quando invece non sono riconosciuti da organi accreditati e autorevoli;
  • vengono enfatizzate singole caratteristiche dei prodotti pubblicizzati, ritenendole di per sé sufficienti a classificarli come prodotti;
  • le indicazioni sul prodotto sono talmente generiche che il loro significato può venire frainteso dai consumatori;
  • vengono inserite etichette false o contenenti parole o certificazioni contraffatte;
  • vengono fatte asserzioni ambientali che sono semplicemente false.

Il greenwashing in Italia

In Italia fino al 2014 non esisteva un riferimento legislativo specifico per il greenwashing ma il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”. Nel marzo 2014, l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58° edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che propone un primo riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela ambientale.

Oggi il greenwashing in Italia viene considerato pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. In passato sono state già emesse diverse sentenze di condanna per alcune aziende che facevano uso del greenwashing, come la Snam che è stata condannata nel 1996 per il suo slogan “Il metano è natura” oppure contro la San Benedetto, la Ferrarelle e la Coca Cola citati prima.

Quindi come accertarsi della veridicità della reale sostenibilità delle aziende in tema di ecosostenibilità? Bisogna verificare la presenza di certificazioni ambientali, come gli standard EMAS (standard europeo che prevede la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale” che tenga conto di vari parametri) e ISO 140001 (riferimento internazionale per linee guida e i requisiti minimi per ottenere una certificazione), ma anche il GRS, ovvero Global Recycled Standard per quanto riguarda chi si occupa di materiali riciclati. Questi strumenti di marcatura ed etichettatura dimostrano l’aderenza delle aziende ai regimi di tutela ambientale e risparmio energetico.