Come era prevedibile e come è stato previsto, la grande escalation paventata dall’intervento diretto dell’Iran nel conflitto con Israele non si è verificata. Ciò però non significa che la Repubblica Islamica sia uscita dai giochi per il controllo del Medio Oriente, anzi. Semplicemente, e tragicamente, la pressione sullo Stato ebraico è tornata appannaggio delle milizie della Mezzaluna sciita che Teheran supporta tutt’intorno al suo grande nemico. Hamas in primis.
Mentre Tel Aviv inizia al piccolo trotto la rischiosa avanzata su Rafah, attaccando la parte est della città al confine tra Striscia di Gaza ed Egitto, l’Iran continua a rincorrere il suo obiettivo strategico: distruggere gli Accordi di Abramo voluti dagli Usa e, con essi, la normalizzazione delle relazioni tra Israele e monarchie arabe. Come? Senza dubbio armando Hamas, Hezbollah e Houthi contro Israele. Ma anche compiendo uno storico, quanto “di facciata”, riavvicinamento all’Arabia Saudita, altro grande avversario esistenziale della potenza persiana.
Il riavvicinamento tattico tra Iran e Arabia Saudita
Dopo la riconciliazione ufficiale e il primo incontro a novembre 2023, al vertice islamico di Riad, tra il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il presidente iraniano Ebrahim Raisi, i due Stati mediorientali hanno compiuto ulteriori passi l’uno verso l’altro. Uno di questi è stato registrato a fine aprile, quando poco meno di cento cittadini iraniani hanno completato il pellegrinaggio minore della Umrah verso la Mecca. Una novità notevole, che infrange ben nove anni di blocco dei visti rilasciati dalle autorità saudite e che rilancia le relazioni bilaterali. Relazioni a dir poco complicate da episodi di scontro come gli attentati ai siti petroliferi di Abqaiq e Khurais, sferrati nel 2019 dai filo-iraniani Houthi, o come la “silente” partecipazione saudita alla difesa di Israele dai droni iraniani nel maxi attacco del 13 aprile. La contrapposizione tra sunniti e sciiti è tutt’altro che una questione spirituale, ha una cruciale valenza geopolitica. Ma la strategia di una potenza, anche antichissima come quella persiana, viene declinata in tattiche anche molto diverse tra loro, a volte anche opposte, inclusa quella di avvicinarsi a uno dei propri avversari per andare contro un altro più potente (ovviamente, gli Usa).
Il riavvicinamento con l’Arabia Saudita appare dunque come quello che in fisica si definisce un atomo esotico, altamente instabile, in cui le particelle tattiche vanno contro gli obiettivi strategici di lungo periodo. Tradotto: anche se si odiano, a persiani e sauditi conviene scordarsi momentaneamente di essere rivali, per ottenere massimi vantaggi dalla loro posizione sullo scacchiere internazionale. Questo perché Israele ha mostrato una profonda debolezza interna ed esterna, non riuscendo ad avere ragione di un gruppo estremista senza neanche uno Stato o un esercito regolare (Hamas) e non potendo dunque garantire la protezione proprio contro la minaccia iraniana che le monarchie arabe ricercano fortemente. In questo senso Riad rappresenta il punto medio variabile dello scontro inconciliabile tra Tel Aviv e Teheran, oscillando da un polo all’altro a secondo delle contingenze.
Il ruolo della Cina
Dietro il riavvicinamento tattico tra Riad e Teheran si staglia l’ombra lunga di Pechino. La mediazione della Cina è infatti fondamentale nella distensione tra le due potenze del Golfo, annunciata nel marzo 2023. Mettendosi dunque ancora una volta in diretta competizione con gli Usa, i quali hanno parallelamente accelerato i negoziati con l’intento comune di stabilizzare il Medio Oriente. Certo, ma Washington si aspetta anche che i legami con Riad – inclusa la normalizzazione con Israele – vadano contro gli interessi di Teheran e Pechino nell’area. Tra il dire e il fare, però, ci sono di mezzo il mare e l’oceano, Persico e Indiano.
La Cina è riuscita a far dialogare i rappresentanti Iran e Arabia Saudita soprattutto grazie al fatto che Pechino è il primo importatore di petrolio nei due Paesi. Un’influenza fortemente condizionata dall’economia, come dimostra anche il fatto che il 90% dell’export di Teheran viene acquistato dal gigante asiatico, grande faro commerciale in un mare di sanzioni occidentali. La Repubblica Popolare importa inoltre più di un quarto dei barili di greggio prodotti in terra saudita. Ne consegue, allo stesso tempo, che Teheran e Riad siano concorrenti nella fornitura di idrocarburi ai cinesi che, come con la Russia, è sempre alla ricerca di energia a basso costo. Perché così agiscono gli imperi: tengono legati a sé altri Paesi importando massicciamente, agendo in maniera anti-economica.
Rispetto a quella saudita, l’economia iraniana registra picchi di crescita che pongono il Paese persiano in una posizione di vantaggio. La capacità di offesa militare (e nucleare) è inoltre il principale motivo di preoccupazione per l’Arabia, che contava su Israele per la protezione dalla minaccia di Teheran. Il conflitto di Gaza e la crisi del Mar Rosso hanno però spinto la monarchia bin Salman ad aprire più tavoli per mettersi al sicuro e tentare di prosperare secondo il suo programma strategico. La Cina offriva per l’appunto le garanzie necessarie a mediare con l’Iran, viste anche le strette relazioni commerciali che coinvolgono i due Paesi e l’intera Asia Centrale, spingendosi fino alla Russia e alla Turchia. Una porzione di mondo tenuta insieme dall’interesse e dalla realpolitik, oltre che dal sentimento anti-occidentale. In realtà, anche Pechino sa benissimo che si tratta di un riavvicinamento di comodo, molto effimero, perché per i sauditi l’alleanza con gli Stati Uniti resta imprescindibile per difendersi in futuro dall’Iran e dal pericolo dell’influenza sciita sul mondo musulmano. Prima però c’è il presente, in cui a minacciare l’allargamento del conflitto mediorientale non è Teheran, ma Israele.
Tra Israele, Usa e Iran: con chi sta davvero l’Arabia Saudita?
Risposta veloce: l’Arabia Saudita è alleata di se stessa, giocando con ambiguità tra Occidente e anti-Occidente. Come la Turchia. Ed è al contempo tatticamente necessaria a entrambi i blocchi, per usare una terminologia novecentesca. Ancora una volta, come la Turchia. Alleati di ferro degli Usa e dei suoi clientes, ma inalienabili alfieri della causa palestinese. La monarchia saudita sa benissimo che il sentimento popolare preferisce il dialogo intra-islamico, anche se con gli odiati sciiti, a quello con lo Stato ebraico responsabile della tragedia umanitaria di Gaza. Possiamo dire, in definitiva e semplificando inevitabilmente la complessità della questione, che l’Arabia Saudita sta con gli Usa ma tiene aperto il dialogo con l’Iran. Per il solito, ritrito motivo: evitare di venire travolta da un conflitto su larga scala in Medio Oriente.
I fatti dimostrano in maniera plastica questa realtà. Pur senza averlo ammesso ufficialmente, l’Arabia Saudita è uno dei Paesi arabi che hanno partecipato alla difesa di Israele dai droni iraniani nel maxi attacco del 13 aprile, utilizzando caccia di ultima generazione (F-35) di produzione americana nei cieli di Siria e Iraq. Attenzione però: è stata una partecipazione dimostrativa più che necessaria. Non si pensi che siano i sauditi a proteggere gli israeliani, perché è vero esattamente il contrario, come abbiamo accennato. L’Arabia non sa fare la guerra, come ha dimostrato il clamoroso insuccesso in Yemen proprio contro gli Houthi, è si affida a Israele contro la minaccia dell’Iran tramite quei celebri Accordi di Abramo che spesso si tirano in ballo. Il ruolo geopolitico saudita è altresì centrale per Tel Aviv anche come partner commerciale e tecnologico, oltre che nella fornitura di aiuti ai civili palestinesi. Che in questo modo si vorrebbero “sedati”, per intenderci. Insomma, “grande è la confusione sotto il cielo”, come affermava Mao Zedong.