Che la guerra d’Ucraina fosse soltanto un riflesso regionale di un conflitto più ampio è ormai cosa nota. Una sorta di diapason geopolitico che irradia le sue vibrazioni in tutto il mondo nei settori più disparati, dall’economia alla società.
Dopo gli sconvolgimenti in Africa (ne abbiamo parlato qui, trattando della crisi in Niger) e l’annunciato allargamento della coalizione anti-occidentale dei BRICS, le ultime vibrazioni hanno sconvolto il vicino Caucaso, riaccendendo il letale conflitto nel Nagorno-Karabakh. Armenia e Azerbaigian fanno tremare ancora una volta l’Europa e l’Occidente, con attacchi letali e conseguenze che rischiano di travolgere i “vicini”. Curiosamente ancora una volta a settembre, come nel 2022.
Cosa succede tra Armenia e Azerbaigian
Dicevamo dell’effetto domino esercitato dalla guerra d’Ucraina. Uno degli effetti più evidenti e recenti è la diminuzione della presa e della presenza della Russia sul Caucaso, con Mosca indebolita dal conflitto nel Donbass (e dal dirottamento delle pluripresenti milizie Wagner) e impegnata a ricucire le fratture interne alla Federazione. Ne ha approfittato l’Azerbaigian, da sempre coltivatore di velleità di controllo e predominio nella regione a spese dell’influenza russa. E qui ricomincia il consueto valzer delle “amicizie”, che vede gli azeri alleati stretti della Turchia, a sua volta timido competitor di Mosca nella zona del Mar Nero.
Il copione, tocca dirlo, si è ripetuto pedissequo: gli armeni hanno accusato ancora una volta le forze azere di aver aperto il fuoco sulle sue posizioni al confine tra i due Paesi, dopo l’annuncio del cessate il fuoco. Per oltre 24 ore le truppe di Baku hanno attaccato gli avversari nella regione contesa, provocando la morte di centinaia di persone. Tra questi figurano anche pacekeeper russi, caduti in un agguato dei separatisti ancora in armi, scatenando l’ira non minacciosa del Cremlino. L’Armenia si è vista costretta a mandare giù il boccone amarissimo di una tregua nella regione contesa, dove le forze autonomiste si sono ufficialmente arrese. Alcuni gruppi di irriducibili proseguono tuttavia la resistenza, rifiutando di abbandonare l’enclave all’Azerbaigian.
Baku ha giustificato l’intervento come blitz antiterrorismo, dando di fatto luogo a una guerra lampo che ha portato alla capitolazione degli avversari. Stando ai separatisti, l’Azerbaigian ha bombardato il territorio montuoso con artiglieria, jet e droni secondo un piano studiato al secondo. Colpendo e impedendo così il transito degli aiuti attraverso l’unico collegamento stradale dall’Armenia al Nagorno-Karabakh, autorizzato proprio il giorno precedente.
Negoziati conclusi, ma la situazione rischia di esplodere
Nel frattempo sono scoppiate le proteste di piazza a Erevan la folla gridava inneggiando all’Artsakh, il nome armeno del Nagorno, coi manifestanti che accusano il primo ministro Nikol Pashinian di inazione, per non aver protetto e difeso gli armeni del Karabakh e di aver chiuso un occhio sulle operazioni di Mosca nell’area. I partiti di opposizione armeni hanno perfino presentato in Parlamento la richiesta di impeachment nei confronti del premier. Al lancio di bottiglie e pietre contro la polizia di fronte alla sede del governo, gli agenti hanno risposto anche con granate stordenti. Epilogo: feriti e arresti, oltre all’ulteriore crescita della rabbia popolare, meno di prima disposta a sopirsi.
E mentre a Stepanakert, la capitale dei separatisti armeni del Nagorno-Karabakh, risuonano ancora gli spari, nella città azera di Yevlakh sono andati in scena i negoziati tra i rappresentanti della popolazione armena del Nagorno-Karabakh e i delegati del governo dell’Azerbaigian. A due giorni dal lancio dell’operazione militare azera e dopo l’accordo sul cessate il fuoco con la mediazione della Russia, Erevan è tornata a casa con un risentimento ancora maggiore, mentre si attrezza per evacuare oltre 5mila civili dalla regione insanguinata.
La situazione armena è troppo calda per l’Unione europea, già scottata dall’impegno nella guerra russo-ucraina e dall’impellenza del dossier migranti. Per questo motivo Bruxelles non ha preso alcuna decisione su sanzioni all’Azerbaigian, trincerandosi dietro un comodo rispetto della volontà comune di tutti gli Stati membri. Intanto sale la tensione anche fra Armenia e Russia, la cui forza di pace nel Nagorno-Karabakh è accusata di non aver sostenuto l’assenza di ostilità e le essenziali forniture di cibo, carburante e farmaci attraverso lo strategico corridoio di Lachin, ma anzi di aver favorito la parte azera nelle loro operazioni militari per isolare la regione.
Intanto le banche cinesi “mangiano” la Russia: la mossa che cambia tutto.
I perché e la storia della guerra per il Nagorno-Karabakh
Il Caucaso è dunque tornato a ribollire e a far tremare mezzo mondo per la presenza turbolenta ed esplosiva di diversi territori separatisti, centro dei disegni geopolitici di grandi potenze come Russia, Turchia e Stati Uniti. Il Nagorno-Karabakh è uno di questi territori, interno all’Azerbaigian dove la maggioranza della popolazione è però armena. Le radici del conflitto scavano negli Anni Venti del Novecento, quando Stalin decise di assegnare all’Azerbaigian il Nagorno-Karabakh, territorio storicamente armeno. L’intento del dittatore sovietico era rafforzare il Paese per utilizzarlo come punta di lancia per esportare la rivoluzione rossa e penetrare in Turchia.
Sono seguiti decenni di tensione e convivenza difficilissima, sfociate in guerriglia e scontri, fino all’escalation del 1992. Il conflitto che ne è scaturito è costato la vita a oltre 30mila persone e ha visto prevalere l’Armenia, la quale ha proclamato la nascita della Repubblica non riconosciuta dell’Artsakh. Per il mondo ribelli tornati in casa loro, poiché sulla carta è l’Azerbaigian ad avere ragione: per questo Baku ha continuato a rivendicare il Nagorno-Karabakh, invocando il rispetto dei trattati e degli accordi di cessate il fuoco. Dall’altro lato le comunità armene in loco hanno invocato il diritto dell’autodeterminazione dei popoli, chiedendo il riconoscimento a livello internazionale della propria nazione.
Lo stallo politico ha esacerbato il conflitto militare, culminato nella vasta operazione azera del settembre 2020. La resistenza armena ha capitolato dopo 44 giorni, il 9 novembre 2020, consegnando di fatto ai nemici la maggior parte della regione contesa. Incluso il corridoio di Lachin, chiuso da Baku a qualunque spostamento di persone o merci. Un assedio, nudo e crudo, contro le affamate sacche armene. Le polveri hanno ripreso fuoco nelle ultime settimane, con il massiccio dispiegamento di truppe azere lungo il confine con il Nagorno-Karabakh e con l’Armenia. Fuoco d’artiglieria continuo e l’impiego di droni l’hanno fatta da padrone, lasciando sul terreno decine di vittime civili, compresi bambini. Il timore è che il conflitto possa estendersi anche alla Repubblica d’Armenia e al resto del Caucaso, infiammato da altrettanto veementi contese territoriali.
La parabola dell’Armenia, da sorella della Russia a “ribelle”
Nonostante Vladimir Putin abbia sottolineato, nel corso di una conversazione con il suo omologo dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, l’importanza di garantire diritti e sicurezza della popolazione armena del Nagorno-Karabakh, l’Armenia appare sempre più lontana dalla sua storica “sorella maggiore” russa. Anche perché in precedenza il Cremlino aveva affermato che Erevan “fa il gioco dell’Occidente”. Un’accusa che punta il dito contro gli accordi armeno-americani di luglio, in virtù dei quali l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (Usaid) sta espandendo la sua presenza in Armenia tramite programmi come quello quinquennale di “Protezione sociale, inclusione ed emancipazione”. I partner occidentali di Democracy International investiranno così 20 milioni di dollari nelle istituzioni armene, minando secondo Mosca lo svolgimento delle elezioni e il loro monitoraggio e ricevendo finanziamenti diretti dal Dipartimento di Stato Usa. L’Armenia come una seconda Ucraina controllata dall’Occidente: è questo il timore e l’accusa dei russi.
La situazione è importante anche dal punto di vista economico anche perché l’Armenia svolge un ruolo primario nell’esportazione di semiconduttori verso la Russia, vitali per l’industria della Difesa (sanzioni inefficaci, ecco come la Russia riesce ad aggirarle). Dall’invasione dell’Ucraina, nel febbraio 2022, le esportazioni sono salite a 3 miliardi di dollari attraverso Milur Electronics, con sede in Armenia, una sussidiaria del produttore di chip russo PKK Milandr. L’Armenia è così diventata il quarto esportatore di semiconduttori in Russia. Consapevole di questo “potere” e sicura dell’ombrello statunitense, il governo armeno ha affermato la necessità di denunciare tutti gli accordi con la Russia, compresi quelli economici. Dal punto di vista di Mosca, è stato un ulteriore capitolo di quel libro già letto in Moldavia dove, per effetto delle crescenti tensioni in un’altra regione separatista (la filorussa Transnistria), l’esecutivo ha ripudiato l’accordo di partenariato con l’intelligence russa.
A tutto questo si aggiunga l’annuncio da parte del ministero della Difesa armeno delle esercitazioni congiunte Eagle Partner 2023 con gli Stati Uniti, alle quali hanno preso parte 85 militari americani e 175 locali. Prima dell’ultimo scontro con le truppe azere, le unità armene erano state messe in stato di massima allerta, al punto che erano Mosca e Baku ad aspettarsi un’offensiva. Riassumendo: l’Armenia sta davvero “mollando” la Russia, senza riconciliarsi con Baku e Ankara, ma avvicinandosi agli Usa. Erevan appare dunque stanca della retorica russa secondo cui vorrebbe una riconciliazione con l’Azerbaigian, teorizzata dalla cosiddetta “formula di Kazan” elaborata 15 anni fa. Putin aveva proposto la sua ricetta per la pace nell’area: ripristino di trasporti e spostamenti e sicurezza dei confini, a patto che l’Armenia si ritiri dal Karabakh. Il Cremlino garantisce anche il rispetto dei diritti della popolazione armena in Azerbaigian, ma gli armeni vogliono fermamente che il Nagorno-Karabakh rimanga armeno, completamente autonomo anche se parte ufficiale dell’Azerbaigian. Un’indipendenza almeno de facto, se non de iure. Intanto però i russi non si possono permettere di morire per gli interessi nel Karabakh, non ieri né tantomeno oggi. E non vogliono farlo.