Il governo può tirare un sospiro di sollievo: il taglio alla rivalutazione delle pensioni d’oro, operato nel biennio 2022/2023, è del tutto legittimo.
A stabilirlo, una sentenza della Corte Costituzionale che, richiamandosi a una precedente deliberazione (n. 234/2020) ha respinto i ricorsi contro il meccanismo di raffreddamento della rivalutazione automatica delle pensioni più elevate, introdotto dalla Manovra 2023.
Perché la rivalutazione delle pensioni è legale
Tale misura, ha rilevato la Consulta, è del tutto coerente con quella finalità di politica economica che intendeva salvaguardare le pensioni più basse. Il tutto indirizzato a ridurre progressivamente l’indicizzazione all’inflazione per gli assegni superiori a quattro volte il minimo Inps, cioè di 2.101 euro al mese secondo i parametri del 2023.
Se la Corte avesse deciso in maniera contraria, lo Stato si sarebbe visto costretto a dover affrontare un esborso straordinario. Con l’ok della Consulta, invece, viene garantita la legittimità dell’attuale meccanismo che ha già permesso un risparmio di circa 37 miliardi di euro tra il 2023 e il 2024.
La sentenza, in sintesi, va a confermare la progressività della rivalutazione delle pensioni, principio con il quale il legislatore ha permesso alle varie fasce di reddito pensionistico di affrontare l’inflazione, in maniera quanto più equa possibile. Di conseguenza, tra il 2023 e il 2024 la rivalutazione degli assegni era stata modulata in questi termini:
- fino a 4 volte il minimo Inps – rivalutazione piena (100%);
- tra 4 e 5 volte – rivalutazione all’85%;
- tra 5 e 6 volte – 53%;
- tra 6 e 8 volte – 47%;
- tra 8 e 10 volte – 37%;
- oltre 10 volte – 32%.
Come cambiano gli assegni pensionistici
Dal 2024 il sistema è tornato a quello precedente al 2022, e cioè:
- fino a 4 volte il minimo Inps (che nel frattempo è stato portato a 2.394,44 euro mensili lordi) – rivalutazione piena (100% ovvero allo 0,8%);
- tra 4 e 5 volte – (fra 2.394,44 e 2993,05) rivalutazione al 90% ovvero allo 0,72%;
- oltre 5 volte (da 2.993,05 a salire) – rivalutazione al 75% ovvero allo 0,6%.
Un elemento chiave per il 2025, come si denota, è la brusca frenata della perequazione: la variazione percentuale per l’indicizzazione delle pensioni è passata dal 5,4% del 2024 allo 0,8%. Ciò significa che gli assegni rivalutati al 90% cresceranno solo dello 0,72%, mentre quelli rivalutati al 75% aumenteranno di appena 0,60%.
Facciamo qualche esempio pratico:
- una pensione di 1.000 euro al mese aumenta a 1.008 euro;
- una pensione di 2.000 euro al mese aumenta a 2.016 euro;
- una pensione di 3.000 euro al mese ha un aumento più complesso, poiché andando a eccedere le 4 volte il minimo, sale a scaglioni: la parte fino a 2.394 euro si rivaluta allo 0,8%, la parte successiva ed entro i 2.993,05 euro si rivaluta all0 0,72% e la parte finale, quella da 2.993,05 a salire si rivaluta allo 0,6%. Tutto ciò considerato, per chi incassa 3.000 euro al mese, l’aumento è di 23,51 euro.
Le accuse della Cgil
La Cgil non ci sta: il principale sindacato italiano ha espresso preoccupazione per l’erosione del potere d’acquisto dei pensionati più ricchi e ha criticato l’utilizzo delle pensioni come strumento di contenimento della spesa pubblica.
L’impatto sulle pensioni minime
Per le pensioni minime, il 2025 porterà un aumento del 2,2%, che farà salire l’importo base da 603,40 a 616,67 euro mensili. Questo incremento, tuttavia, è ben lontano dal recupero del potere d’acquisto perso a causa dell’inflazione.
La decisione della Corte non esclude futuri interventi sull’indicizzazione, purché venga garantita la tutela delle fasce più basse, che rappresentano il 54% dei pensionati.
Prospettive future
Ma la situazione potrebbe evolvere molto presto, e non per il meglio: rimane, infatti, il nodo della tenuta del sistema pensionistico nel medio periodo che potrebbe portare a misure straordinarie, come tagli alla rivalutazione, stavolta sotto forma di misure permanenti.