Come è noto, la busta paga è un documento che mensilmente l’azienda consegna e in cui sono dettagliatamente indicate informazioni come retribuzione lorda, trattenute fiscali e previdenziali, netto in busta, gli estremi del lavoratore e del datore, ore lavorate e non solo. La finalità è dimostrare rapporto di lavoro e compenso incassato, ma ci sono casi pratici in cui nei vari conteggi qualcosa potrebbe non tornare. Magari con ore in più non segnalate.
La domanda sorge allora spontanea: se il dipendente firma una busta paga con meno ore, si “vincola” a quanto scritto nel documento, eventualmente rinunciando al maggior stipendio derivante da un calcolo corretto e completo di tutte le ore di lavoro? Lo vedremo di seguito, chiarendo una questione pratica che genera non pochi dubbi.
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La busta paga non deve essere firmata dal dipendente
Una busta paga truccata ha un contenuto modificato intenzionalmente, per nascondere la reale situazione lavorativa o reddituale.
Ci sono datori che, in busta, indicano somme inferiori rispetto a quelli realmente versate, per pagare meno tasse o contributi. Ma ovviamente a questo abuso corrisponde la violazione del diritto dei lavoratori a un compenso proporzionato alle ore di lavoro totali.
Prima che essere una regola giuridica, è una questione di buon senso, ma vero è che l’eventuale firma della busta paga – magari sollecitata dallo stesso datore sotto la minaccia di non ricevere poi lo stipendio – potrebbe far pensare a una rinuncia ai propri diritti.
Chiariamo un punto molto importante. Secondo la legge n. 4 del 1953, l’azienda è tenuta a consegnare al lavoratore un prospetto paga dettagliato, ma non è previsto, dal lato del dipendente, alcun obbligo di firma.
D’altra parte, la firma è un elemento che può facilitare il datore nell’arginare eventuali contestazioni e nel dimostrare di aver effettivamente dato il prospetto paga al dipendente.
Si tratta, cioè, di una prova documentale molto utile. Oggi, in alternativa alla firma molte aziende ricorrono a sistemi digitali (invio via Pec, ad esempio) che tracciano accesso e ricezione del documento.
Chi firma la busta paga non si vincola a tutto il contenuto
Abbiamo appena detto che la firma non è obbligatoria. E attenzione: chi firma non si vincola passivamente e irrevocabilmente a quanto riportato in busta paga.
La legge afferma, infatti, che sottoscrivere non equivale ad accettare o essere d’accordo con quanto dice l’azienda. Anche perché la firma potrebbe nascondere un riuscito tentativo di estorcere il consenso, con la minaccia di non consegnare lo stipendio.
E questo vale anche se la firma in busta è accompagnata da frasi come per ricevuta (presa visione del documento) o per quietanza (conferma dell’avvenuto pagamento).
Infatti, non c’è alcuna regola scritta che da questo fa derivare la privazione dei propri diritti, compreso quello di richiedere la maggior somma di stipendio dovuto (ad esempio 150 ore mensili invece di 140) e contestare errori, omissioni o trattenuteindebite.
In materia la giurisprudenza della Cassazione è assolutamente unitaria e compatta, richiamando i principi generali del diritto del lavoro e, in particolare, l’impostazione protettiva di quest’ultimo, secondo cui la posizione del dipendente è considerata strutturalmente più debole rispetto a quella dell’azienda o datore.
Come provare le differenze di stipendio
Perciò, anche se la busta paga è firmata per quietanza, ciò non preclude al lavoratore la possibilità di richiedere e ottenere somme maggiori, se dimostra che la retribuzione è stata effettivamente inferiore a quanto dovuto per contratto o legge.
Anzi, proprio i giudici di piazza Cavour in varie sentenze hanno ribadito che la quietanza non ha valore liberatorio pieno, se il dipendente non rinuncia in modo espresso, consapevole e del tutto libero da condizionamenti.
Chiaramente in questi casi, se alla richiesta di correzione del dato delle ore lavorate nasce una contestazione, il dipendente potrà tutelarsi tramite segnalazione all’Ispettorato del lavoro e azione in tribunale.
Potrà quindi munirsi di prove utili – come testimonianze, chat aziendali, eventuali registrazioni audio o video, il dato dei sistemi di timbratura, messaggi Whatsapp e mail.
Sarà poi il giudice ad avere i pieni poteri per riconoscergli il versamento delle differenze retributive negate dall’azienda. E, a maggior ragione, il lavoratore potrà contestare la correttezza dell’azienda, dimostrando eventuali pressioni subite.
L’onere della prova ricade sul datore di lavoro
Dal lato dell’azienda, il datore dovrà superare la contestazione sulle ore o sulla busta paga, ma sarà lui a dover provare che ha pagato effettivamente e per la cifra giusta. Non sarà il dipendente a dimostrare di non aver ricevuto tutto il dovuto.
La Cassazione lo ha già spiegato nel 2018 con le sentenze n. 13306 e n. 21699: la firma per accettazione del compenso non basta ed è l’azienda che deve impegnarsi a chiarire di aver ragione, tramite la prova degli spostamenti di denaro – oggi peraltro favorita dall’obbligatoria tracciabilità.
Invece, le buste paga firmate dal lavoratore con la formula per ricevuta sono prova della sola effettiva consegna e non anche del concreto versamento, che dovrà essere provato dal datore di lavoro.
Anche recentemente, con la decisione 10663/2024, la Suprema Corte ha ribadito che la prova del versamento del salario, una volta verificata la presenza del rapporto di lavoro, spetta al datore.
Inoltre la giurisprudenza rimarca che, anche con firma per quietanza, si può sempre agire se le somme non sono state realmente versate.
Concludendo, le regole sono quindi molto chiare e oggi lo sono anche prima dell’assunzione. Conseguentemente il dipendente è assolutamente tutelato qualora in busta paga ci siano meno ore rispetto a quelle effettivamente svolte.
Gli strumenti legali di tutela sono a disposizione per riportare la situazione alla normalità e assicurare il versamento dello stipendio nella sua interezza.