Pubblicata pochi giorni fa, una sentenza della corte d’appello di Milano ha affrontato una questione complessa, ma di costante attualità per i lavoratori: la tutela del diritto al riposo settimanale e i limiti della prescrizione nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, dopo l’entrata in vigore della legge Fornero (legge 92/2012).
La prescrizione, in termini semplici, è il periodo di tempo oltre il quale un diritto non può più essere fatto valere in giudizio: se decorre senza che il lavoratore agisca, il diritto si estingue.
Ebbene, la pronuncia 803/2025 del giudice meneghino ha sostanzialmente stabilito che la prescrizione dei diritti del lavoratore resta sospesa o congelata finché dura il rapporto. Il motivo sta in quello che è definito metus, cioè il timore di ritorsioni o licenziamento che impedisce al dipendente di far valere i suoi diritti.
Soltanto alla cessazione del rapporto lavorativo il cronometro della prescrizione inizierà a decorrere, anche per i danni da stress o burnout.
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Riposo settimanale negato: il caso in tribunale
La vicenda riguardava alcuni dipendenti di una società operante nel settore ferroviario, che avevano agito in giudizio lamentando la mancata fruizione dei riposi settimanali a causa di un particolare sistema di reperibilità nel fine settimana, adottato in ufficio.
In breve, i lavoratori, pur avendo un orario ordinario di 38 ore su cinque giorni (dal lunedì al venerdì), erano obbligati dal datore a garantire la loro eventuale presenza sul posto di lavoro nelle giornate di sabato e domenica.
Si applicava, infatti, una specifica regola di turnazione di un week-end ogni quattro.
Proprio questa organizzazione del lavoro avrebbe impedito in più casi di godere del riposo settimanale minimo di 24 ore consecutive previsto dalle norme nazionali, comunitarie e contrattuali, determinando un danno di natura non patrimoniale per usura psicofisica o stress.
I dipendenti hanno così agito in tribunale, chiedendo al giudice di accertare l’illegalità della prassi e condannando la società datrice al risarcimento delle conseguenze per la salute, derivanti dalla violazione del diritto al riposo settimanale.
Non era bastato alla società riconoscere il pagamento delle indennità di reperibilità e delle maggiorazioni per le ore effettivamente lavorate, perché i dipendenti volevano essere tutelati anche e soprattutto sul piano sanitario.
Da quando si calcola la prescrizione per i risarcimenti
Il giudice di primo grado accolse il ricorso, riconoscendo ai dipendenti un risarcimento danni da usura psicofisica pari ad alcune migliaia di euro. La società fu condannata anche al pagamento delle spese legali.
Contro questa decisione, il datore propose appello, cercando di far valere la presunta mancata applicazione della prescrizione quinquennale.
Secondo l’appellante, infatti, la sospensione della prescrizione nel corso del rapporto di lavoro (riconosciuta dalla giurisprudenza in seguito alla legge Fornero) si sarebbe riferita ai soli crediti di natura retributiva e non a quelli risarcitori come quello oggetto della causa.
A sostegno della propria tesi, la società aveva richiamato la sentenza della Corte di Cassazione n. 26246/2022, interpretandola come riferita esclusivamente ai diritti di natura retributiva. Tuttavia, la corte d’appello meneghina confermò la correttezza logico-giuridica della decisione di primo grado, respingendo la versione proposta dalla società.
In sintesi, la magistratura ha sancito che, per tutti i diritti non ancora prescritti prima della riforma del 2012, il cronometro della prescrizione rimane fermo e congelato per tutta la durata del rapporto.
Riparte soltanto dal giorno in cui il rapporto di lavoro cessa, quando il dipendente può agire senza timore di ripercussioni interne.
Cosa dice la legge sulla prescrizione nei rapporti di lavoro
Questa pronuncia si fonda sull’evoluzione del principio sulla decorrenza della prescrizione nei rapporti lavorativi.
Per la sentenza della Corte Costituzionale n. 63/1966, la prescrizione non può decorrere durante il rapporto se il dipendente, per timore del licenziamento si trova impossibilitato a esercitare i suoi diritti e avanzare pretese economiche o risarcitorie.
D’altronde, se il lavoratore ha paura di perdere il posto, la prescrizione non può decorrere, altrimenti l’art. 36 Costituzione, che tutela il diritto a una giusta retribuzione e al riposo, sarebbe svuotato di senso.
Nel 2022 la Cassazione ha aggiornato il principio alla luce delle riforme del mercato del lavoro, chiarendo che il rapporto a tempo indeterminato, dopo la legge Fornero del 2012 e il Jobs Act del 2015, non è più assistito da un regime di piena stabilità.
Infatti, il lavoratore oggi non può avere la certezza di essere reintegrato in ipotesi di licenziamento illegittimo, se non in casi specifici.
Proprio per questa assenza di stabilità, la Suprema Corte ha spiegato che la prescrizione decorre esclusivamente dalla fine del rapporto in essere, per tutti i diritti che non erano già prescritti all’entrata in vigore della legge Fornero.
Tornando alla sentenza 803/2025, il giudice d’appello non ha fatto altro che applicare questo principio in modo coerente anche al diritto al risarcimento del danno da mancato riposo settimanale.
Il ragionamento della Suprema Corte non è circoscritto ai diritti legati a busta paga, stipendio e reddito, ma riguarda tutti i diritti collegati al rapporto di lavoro.
Che cosa cambia per riposo settimanale e altri diritti
La sentenza 803/2025 della corte d’appello milanese rappresenta una nuova conferma del principio di unità della tutela del lavoratore, anche in aderenza alle norme dell’Ue.
Infatti, quando il rapporto non offre garanzie di solida stabilità, il cronometro della prescrizione dei diritti – siano essi retributivi o risarcitori – non può iniziare a scorrere, finché il lavoratore è anche alle dipendenze del datore ed è dunque parte debole del rapporto.
Il diritto al risarcimento per stress legato a violazioni delle regole sul riposo settimanale, dunque, deve essere considerato non soggetto a prescrizione finché il contratto produce i suoi effetti. E deve esserlo soprattutto oggi, visto che le norme di legge sono più elastiche e tutelano il posto di lavoro con meno incidenza rispetto allo Statuto del 1970.
Il messaggio della magistratura rafforza la protezione dei diritti fondamentali e riconosce la centralità del riposo settimanale come componente essenziale della salute (visto anche il rischio burnout) e della dignità della persona che lavora.
Per questo i dipendenti possono pienamente tutelarsi e chiedere i danni da usura psicofisica anche (e soprattutto) dopo la fine del rapporto. Non devono temere ritorsioni o licenziamenti, grazie a un diritto a fare causa che di fatto si “allunga” nel tempo.
Il principio in oggetto vale non soltanto per il pagamento di somme arretrate o differenze di salario, ma anche per le pretese legate alla tutela della salute.