Patto di non concorrenza, quando il divieto al dipendente è illegale

Nuova sentenza sul patto di non concorrenza, scopri quando è nullo e come tutela i diritti del lavoratore secondo la legge italiana

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Il know how aziendale è un patrimonio strategico che le imprese devono proteggere, soprattutto dal rischio che i lavoratori lo trasferiscano ai concorrenti. Per tutelarsi dal possibile uso improprio e svantaggioso di informazioni riservate, l’azienda può ricorrere al patto di non concorrenza, ossia un accordo individuale tra il datore e il dipendente che — in cambio di un compenso — impegna quest’ultimo a non svolgere attività lavorativa o professionale in concorrenza con l’azienda.

Proprio su questo delicato argomento è da poco intervenuta la Corte d’appello di Roma con la sentenza n. 3372, la quale rimarca un fondamentale principio: se il patto è troppo ampio o restrittivo, non ha effetto tra le parti e va sempre annullato con provvedimento del giudice. Vediamo più da vicino.

La vicenda in sintesi e il contrasto tra azienda e dipendente sull’asserita violazione del patto

Nel caso concreto giunto all’attenzione della corte d’appello capitolina, a un dipendente — assunto a tempo indeterminato — era stato contestato di aver svolto attività in concorrenza in violazione delle norme civilistiche e di un articolo del suo contratto di lavoro. In particolare, l’uomo era stato accusato di aver agito in qualità di amministratore di Srl, svolgendo attività in regime di concorrenza con l’azienda datrice.

Nel caso esaminato, il patto vietava al lavoratore di svolgere attività in tutto il territorio dell’Italia e dell’intera Europa, e l’ambito oggettivo — cioè le singole attività proibite — era talmente ampio da includere pressoché tutto il settore professionale nel quale il dipendente aveva maturato un importante background.

Dalla contestazione disciplinare scaturì il licenziamento senza preavviso, che l’uomo impugnò insieme al patto di non concorrenza ritenuto nullo e illegittimo. Sosteneva, infatti, che il suo ruolo di amministratore era elemento già noto alla società e che dietro il provvedimento disciplinare — in realtà — si nascondeva una volontà ritorsiva dell’azienda datrice.

Inoltre, il dipendente affermava la sostanziale insussistenza dell’addebito, perché le due aziende operavano in settori diversi. Una si occupava esclusivamente di perforazioni per l’installazione della fibra ottica, mentre l’altra era attiva nel settore elettrico della media ed alta tensione.

La corte territoriale spiega quali sono i limiti del patto di non concorrenza

In linea generale, il patto di non concorrenza è un accordo che può essere inserito nel contratto di lavoro per limitare l’attività professionale del dipendente, al fine di tutelare il know how e il segreto aziendale. In aderenza al più generale obbligo di fedeltà, l’art. 2125 Codice Civile ammette questo tipo di clausole, ma solo a specifiche condizioni (limiti territoriali, limiti di attività vietate e previsione di un compenso). Perciò, se questi limiti non vengono rispettati, il patto può essere dichiarato nullo.

Per il giudice, risultanze processuali e elementi fattuali emersi hanno composto un nitido quadro, ponendo l’azienda innanzi alle sue responsabilità. Nella sentenza n. 3372 il messaggio è esplicito: una troppo restrittiva combinazione di divieti territoriali e professionali impedisce al dipendente qualsiasi concreta possibilità di svolgere un’attività coerente con il proprio percorso professionale, sia come autonomo che come dipendente.

Per giustificare l’annullamento del patto, la corte capitolina ha richiamato la giurisprudenza costante della Suprema Corte (Cass. 10062/1994). In particolare, il patto:

  • anche in conformità al dettato costituzionale (art. 36), non può annullare di fatto il diritto del lavoratore a procurarsi un guadagno adeguato alle esigenze di vita proprie e della famiglia;
  • in nessun caso può essere così vasto, per oggetto o territorio, da precludere ogni prospettiva di lavoro nel settore in cui il dipendente ha competenze e formazione.

In breve, il patto non può essere usato per “bloccare” totalmente l’attività futura del lavoratore. Non può cioè azzerare ogni rischio alla fonte, con la conseguenza di impedire crescita professionale e migliori compensi a un lavoratore.

Nell’annullare il licenziamento e dichiarare nullo il patto per violazione della legge, la corte capitolina chiarisce così che il datore deve sempre lasciare uno spazio di effettiva libertà, che consenta di svolgere mansioni e attività coerenti con le proprie aspirazioni e con il bagaglio professionale maturato.

Il punto sulle clausole, non serve l’approvazione scritta

Non solo. Il giudice territoriale precisa che queste clausole non devono essere necessariamente approvate in modo formale, mettendo nero su bianco la volontà delle parti.

In via generale lo richiede l’art. 1341 Codice Civile ma, nel caso che qui interessa, il patto era stato elaborato per un singolo rapporto (come si dice in gergo intuitu personae), e non tramite moduli o formulari standard utilizzati in serie. Quindi, il problema della validità non riguardava la forma della clausola, ma il suo contenuto.

Che cosa cambia

Al di là dell’esito per le parti in causa, questa pronuncia invita aziende e dipendenti a ricordare sempre una regola chiave del diritto del lavoro: un patto di non concorrenza è valido solo se ragionevole, proporzionato e non lesivo della libertà professionale del lavoratore. Spetterà al giudice valutare, caso per caso, la conformità alla legge di questo accordo.

In termini pratici, il datore può tutelare i propri interessi, ma non può annullare il diritto del lavoratore a trovare nuove occupazioni e compensi. E, anzi, quest’ultimo deve poter continuare a svolgere attività compatibili con la propria formazione e abilità.

Perciò, ad es. un tecnico specializzato nei cantieri non potrà essere vincolato da un patto che gli impedisce di lavorare in tutto il settore delle costruzioni in Europa. Parallelamente, un commerciale non potrà essere bloccato da un divieto che copre clienti e aree geografiche, mai trattate durante il rapporto.

Concludendo, patti troppo ampi, troppo generici o geograficamente smisurati sono destinati a essere considerati illegittimi. Come nella sentenza che abbiamo visto sopra, ogni azione legale mirata ad accertarne la nullità potrà concludersi positivamente per il lavoratore. E sarà anche possibile ottenere l’annullamento del licenziamento disciplinare, eventualmente inflitto per violazione della clausola contrattuale.