In ufficio non è sempre facile coltivare buoni rapporti, sia con i colleghi che con i superiori. Incomprensioni, differenze caratteriali, umori ballerini e litigi possono influenzare negativamente le relazioni interpersonali, con il rischio di trasformare il lavoro in una fonte di elevato stress.
Pensiamo ai quei gesti che il diritto chiama atti persecutori. Nel mondo del lavoro si riassumono con il termine mobbing, ossia quella forma di violenza psicologica subdola e sistematica, attuata al fine di colpire dignità e stabilità emotiva della vittima e portarlo alle dimissioni.
I casi pratici trattati dalla giurisprudenza sono numerosissimi e ognuno di questi ha a che fare con modalità di persecuzione che possono spiccare o riportarsi a un quadro tipico di gesti e comportamenti.
Chi pratica il mobbing – il cosiddetto mobber – spesso agisce in modo sottile, alternando cordialità di facciata a comportamenti tossici e manipolatori. Ma ci sono segnali ricorrenti che possono aiutare a identificarlo. Ecco 5 comportamenti da tenere d’occhio, raccontati con esempi tratti dalla vita d’ufficio quotidiana.
Indice
Critiche continue, denigratorie e umilianti davanti a tutti
Un consiglio pratico, un suggerimento utile a rivedere il proprio lavoro oppure una dritta per il futuro sono ben accetti da qualsiasi lavoratore. Così non è, invece, quando il mobber si avvicina alla propria scrivania e non perde occasione per sottolineare errori, veri o presunti, in modo pungente e pubblicamente imbarazzante.
Proprio così. Uno degli strumenti preferiti del mobber è la critica sistematica e sproporzionata rispetto alle reali responsabilità di chi la riceve. Sono parole non costruttive, attacchi personali, frasi di pesante sarcasmo e commenti pungenti che non hanno lo scopo di migliorare il lavoro, ma di sminuire e umiliare la persona davanti al resto del gruppo di lavoro.
L’esempio pratico potrebbe essere quello della riunione in cui una dipendente presenta i risultati di un progetto o report, ma un collega, a voce alta e con tono ironico, commenta con parole del tipo:
Interessante… se fossimo ancora nel 2010.
Oppure:
Come al solito, un lavoro approssimativo. Non sorprende più nessuno.
Sono battute che non hanno valore tecnico, sembrano quasi scivolare via ma, a ben vedere, servono solo a far passare la vittima per incompetente. Parole ben più gravi di ciò che sembrano.
Isolamento sistematico ed esclusione sociale della vittima
Il mobber spesso punta all’esclusione sociale, a sminuire la vittima tenendola fuori dal gruppo e dalle conversazioni importanti. Un altro esempio è l’omissione nelle e-mail di gruppo che, dunque, non arrivano alla vittima, oppure l’esclusione dalle situazioni informali che rafforzano la coesione del team, come ad esempio le uscite al bar vicino all’ufficio o i momenti di chiacchiere durante la pausa caffè.
Il caso pratico potrebbe essere quello del reparto marketing, che organizza una pizza dopo il lavoro. Tutti ricevono l’invito tranne il mobbizzato, che scopre l’uscita solo il giorno dopo. Quando chiede spiegazioni, gli viene risposto:
Pensavamo non ti interessasse uscire con noi.
Ovviamente si tratta di parole non giustificative e che nascondono l’intento del mobber.
Diffusione di pettegolezzi e insinuazioni
Chi compie atti persecutori al lavoro spesso usa la strategia del discredito personale, diffondendo voci, insinuando dubbi o suggerendo che la vittima non sia adeguata. Il pettegolezzo è un’arma tossica in qualsiasi ufficio.
I mobber sfruttano occasioni di condivisione, pause, ritrovi, uscite per sparlare del collega vittima, talvolta usando frasi vaghe, lasciando che siano gli altri a completare l’insinuazione e allargando, quindi, la portata del mobbing.
L’esempio classico potrebbe essere quello della pausa caffè, in cui un collega esclama:
Ho saputo che Elisa sta avendo dei problemi a casa. Non so se riesce a reggere la pressione in questo periodo.
Anche in questo caso la frase sembra neutra, quasi fredda, ma, a una più attenta lettura e interpretazione, insinua e trasmette incertezza sulle capacità della collega, senza offrire alcuna informazione certa e senza che quest’ultima possa replicare.
Doppiogiochismo e manipolazione
Il mobber può essere un maestro del doppio gioco: disponibile e affabile in pubblico, distaccato e ostile in privato. Spesso manipola le situazioni per mettere in cattiva luce la vittima, senza esporsi apertamente e senza farsi notare nel suo reale obiettivo.
Si pensi al caso del meeting, in cui una persona pubblicamente elogia il collega apprezzandone l’altruismo e la generosità e poi, in privato, scrive al superiore usando queste parole:
Marta si mostra collaborativa, ma ultimamente la vedo distratta e poco reattiva. Forse ha bisogno di una pausa.
Ecco che il vero intento del mobber si palesa in tutta la sua deplorevolezza.
Controllo ossessivo e micromanagement
Non solo. Un altro segnale tipico dato dal mobber è il controllo eccessivo, specie quando agisce in veste di superiore gerarchico. Si accanisce sulla produttività della vittima, richiedendo aggiornamenti continui, correggendo anche virgole e dettagli minimi, togliendole ogni autonomia.
L’esempio pratico potrebbe essere quello della lavoratrice occupata in un customer care. Ogni volta che risponde a un’e-mail, il responsabile la richiama, facendole notare che avrebbe dovuto salutare non con Cordiali saluti ma con Distinti saluti e imponendogli di rivedere tutto il contenuto del testo.
In casi come questo, ogni piccolo errore formale diventa una colpa e ogni azione deve essere autorizzata quasi come se la vittima del mobbing stia compiendo un percorso in un terreno minato.
Cosa fare se si sospetta di essere vittima di mobbing
Quanto abbiamo visto sopra vuole aiutare il lavoratore a schiarirsi le idee e a capire quando, dietro una battuta infelice o un gesto sgarbato, ci sia in realtà un intento persecutorio.
Se questi atti diventano ripetitivi, mirati e sistematici, è preferibile non ignorarli perché il mobbing può minare la salute psicologica di chi lo subisce, influendo su autostima, motivazione e benessere generale. Inoltre può essere alla base del burnout.
Ecco perché parlarne con i propri affetti, documentare i fatti, cercare supporto da colleghi di fiducia o da un rappresentante sindacale può essere il primo passo per difendersi. Al contempo sarà possibile rivolgersi a uffici di ascolto appositi (come ad esempio il Centro Italiano Anti Mobbing) o a un legale specializzato.
Con la precisazione finale che le sentenze a favore delle vittime di certo non mancano, sono innumerevoli e tutte di aiuto per far valere le proprie ragioni in un’eventuale causa legale.
Si pensi ad esempio alla recente decisione che ha accertato gli atti persecutori del datore per un trasferimento ingiustificato e alla sentenza di tribunale dello scorso anno, che ha stabilito una condanna del datore di lavoro per mobbing.
In un ambiente tossico, il silenzio è il primo alleato del mobber. Riconoscere i segnali è il primo passo per riprendere il controllo.