Ci sono situazioni pratiche in cui la decisione della magistratura è perfettamente aderente alle conclusioni del senso comune e l’ordinanza Cassazione n. 21103 di qualche settimana fa, ne è un ulteriore esempio. Quando, per uno scatto d’ira e per un gesto di impulsività, un dipendente perde il controllo e pronuncia parole molto sconvenienti e offensive nei confronti del capo, la conseguenza non può che essere il licenziamento.
La Corte è stata chiara: non è necessario che la “parolaccia” sia stata già espressa in altri casi, o che ci siano precedenti disciplinari, perché è sufficiente anche un solo singolo episodio a giustificare l’espulsione dall’azienda. Vediamo in sintesi la vicenda da cui è scaturita la decisione della Suprema Corte, evidenziando qual è il monito che dà a tutti i dipendenti poco inclini al self control.
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Il caso concreto e l’ingiuria rivolta al superiore sul luogo di lavoro
Perdere le staffe in ufficio non è infrequente, ma i collegati rischi di natura disciplinare non vanno affatto sottovalutati. Opponendosi all’esecuzione di una direttiva aziendale in tema di modifica del piano ferie già approvato, una psicologa – dipendente presso una struttura attiva nell’assistenza a persone con disabilità – si era espressa con un epiteto volgare nei confronti di un superiore, definendolo “lecchino” e – come emerso dai fatti di causa – lo aveva fatto in presenza di una collega.
L’ingiuria aveva portato rapidamente al licenziamento in tronco o per giusta causa, contro cui la donna si difese impugnando in tribunale il provvedimento disciplinare. In primo grado l’esito fu favorevole alla donna, perché la ricostruzione dei fatti aveva evidenziato un comportamento certamente di cattivo gusto, ma anche una sanzione ritenuta sproporzionata. Il giudice dispose così reintegra e pagamento di dodici mensilità di indennità.
In appello il ribaltamento. La “lettura” dei fatti di causa che diede il giudice di secondo grado fu infatti opposta, con conferma del provvedimento espulsivo. Nel merito, si riconobbe – quindi – un’irreparabile violazione del rapporto di fiducia con l’azienda datrice, perché la donna aveva pronunciato una parola volgare e qualificabile come ingiuria e gesto di insubordinazione, infrazioni peraltro menzionate dal Ccnl di riferimento.
Le circostanze concrete hanno amplificato le conseguenze disciplinari
I fatti, così come accertati in aula, hanno inchiodato la donna alle conseguenze disciplinari. In particolare, la gravità è stata amplificata dalla situazione in cui si è consumata, ossia in un ufficio e in presenza di terzi. Quanto emerso dalla ricostruzione degli eventi indicava che la reazione verbalmente violenta non era stata consequenziale a una lite già in corso, o una provocazione del superiore (come ad es. un richiamo ingiustificato o umiliante davanti ai colleghi).
Non solo. Già in passato la donna si era resa protagonista di un episodio negativo, un precedente disciplinare pur non in stretto collegamento con quello sopra menzionato. La psicologa aveva infatti subito una sanzione per aver insultato il padre di un paziente. E anche questo fatto ha contribuito alla sentenza di conferma del licenziamento.
Anche una sola ingiuria giustifica l’espulsione
Per la Suprema Corte non c’era nulla da “sindacare” nella decisione dell’appello. Dare del “lecchino” al capo o superiore non è un fatto sui cui si può transigere. Un sanzione conservativa è troppo lieve, spiega in sostanza la Cassazione, perché un insulto di tale portata – espresso a voce davanti ai colleghi – non può che essere qualificato come insubordinazione aggravata dall’ingiuria.
Anche il sopra citato precedente disciplinare è stato un elemento utile a valutare l’attitudine complessiva della dipendente. La Corte, ribadendo la correttezza del ragionamento logico-giuridico del giudice d’appello, ha così espressamente parlato di predisposizione all’insulto e di facilità con cui la lavoratrice ricorre all’uso di toni e parole chiaramente offensive, peraltro in un ambiente di lavoro assistenzialistico.
La Cassazione ha però anche colto l’occasione per precisare che il fatto che il contratto collettivo applicabile parli – genericamente e al plurale – di “litigi, ingiurie, risse” non significa che siano necessari più episodi, per giustificare il licenziamento. Al di là della longevità del rapporto di lavoro, anche un unico episodio – se di particolare gravità e inserito in un contesto tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario – può essere sufficiente per il recesso datoriale. E così è stato in questo caso.
Che cosa cambia
In casi come questi, la rozzezza delle parole può costare molto cara. Esprimersi con parole offensive come “lecchino” – ma i possibili esempi sono innumerevoli – nei confronti di un superiore, vìola le buone maniere ma soprattutto rompe quel legame di fiducia che sorregge ogni rapporto di lavoro, puntellato altresì da lealtà, rispetto, disciplina, diligenza e buona fede.
A differenza di un recente caso di vandalismo che ha suscitato qualche perplessità verso la decisione della Corte, qui la sentenza della Cassazione appare incontrovertibile perché chiarisce che l’insulto al superiore gerarchico integra palesemente insubordinazione, specialmente quando rappresenta una reazione a una direttiva del responsabile. Un comportamento del genere lede la fiducia senza possibilità di riparazione e non è possibile tutelarsi contro un licenziamento che non appare affatto ingiusto.
Si pensi, ad esempio, a situazioni in cui un dipendente, alla presenza dei colleghi, reagisce a un ordine del proprio superiore con frasi come: “Sei un incompetente, non capisci nulla!“, oppure “Fatti i ca**i tuoi e lasciami lavorare!” o ancora “Vai al diavolo, non sei nessuno per comandarmi!”. In questi casi, l’espulsione dall’azienda non potrà essere ribaltata da una pronuncia della Cassazione.