Lavoro: record di dimissioni volontarie. Così il Covid ci ha cambiati

Le tabelle dell'ultima nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro.

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Paolo Viganò

Giornalista di attualità politico-economica

Classe 1974, giornalista professionista dal 2003, si occupa prevalentemente di politica, geopolitica e attualità economica, con diverse divagazioni in ambito sportivo e musicale.

E’ stata battezzata “Great Resignation” o “Big quit”. E’ fenomeno nato negli Stati Uniti, durante la pandemia, che pare essersi consolidato, ed è sfociato anche in Europa, seppure in scala minore. L’Italia non è rimasta fuori. Il fenomeno consiste in un aumento delle dimissioni volontarie da parte di lavoratrici e lavoratori che non necessariamente passano direttamente ad un altro impiego e quindi, sostanzialmente, danno l’impressione di aver deciso per un cambiamento di vita radicale, a partire dal proprio lavoro.

Numeri

Sono 1,66 milioni le dimissioni dal lavoro registrate nei primi nove mesi del 2022, in aumento del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando erano state 1,36 milioni. E’ quanto si evince dalle tabelle dell’ultima nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro.

Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro, le dimissioni costituiscono, dopo i contratti a termine, la quota più alta. Risalgono anche i licenziamenti: tra gennaio e settembre 2022 sono stati circa 557mila contro i 379mila nei nove mesi del 2021, con un aumento del 47% rispetto ad un periodo in cui era però in vigore il blocco.

Effetto pandemia

E’ utile chiedersi da cosa è scaturita questa tendenza e quali sono i fattori che hanno alimentato l’esplosione delle dimissioni volontarie.
“Il fenomeno è ancora tutto da studiare”, ammette il Presidente dell’Ufficio studi Legacoop Mattia Granata.

“Le ipotesi su cui ci si sta muovendo, e che per la verità stiamo tutti sperimentando anche su noi stessi, è che la pandemia è durata un tempo lungo, due anni, sufficiente a mettere in discussione la propria normalità. Inoltre, ha messo fortemente sotto stress le persone, le relazioni umane e sociali, le famiglie, e ovviamente il lavoro, un elemento cruciale dei tempi, dei luoghi e delle condizioni della vita”.

“Tutti questi aspetti sembrano entrati sotto esame inevitabilmente sono stati posti in discussione; si può supporre che questo incremento delle dimissioni rientri in tale sfera: sia una conseguenza sociale della pandemia”.

Così il Covid ci ha cambiati

Sul desiderio di abbandonare il posto di lavoro potrebbero aver pesato fattori di carattere economico o relativi alla qualità di vita, ma secondo il Presidente dell’Ufficio studi Legacoop, “in entrambi i casi il punto di partenza dell’analisi è lo stesso, ossia che la pandemia ha cambiato le vite di tutti e probabilmente non solo il modo di vivere ma anche le priorità, le speranze, gli obiettivi e i comportamenti economici e sociali”.

Negli Stati Uniti, in cui il fenomeno si è mostrato prima e su grande scala, sembra che il motivo prevalente delle dimissioni non sia la retribuzione. “Un po’ ovunque, in questo periodo, stanno emergendo altri aspetti – spiega Granata – la qualità del lavoro e della vita, il bisogno di soddisfazione, di autorealizzazione, di crescita sociale e personale, di una maggiore ‘libertà’. Lo sforzo e la preoccupazione dei mesi passati, il lavoro da remoto, la dad, hanno spinto le persone a cercare un nuovo ‘senso’ a ciò che fanno e alla propria vita”.

Da una recente ricerca AreaStudi Legacoop-IPSOS emerge che sempre di più al proprio lavoro, oltre ovviamente al reddito, si chiede stabilità personale, crescita, realizzazione. I momenti di crisi sono proprio quelli in cui ci si fa delle domande sulla propria felicità, forse è ciò che sta avvenendo.

Cambiare approccio

Secondo gli esperti occorre oggi un approccio più complessivo, “olistico”: salario minimo, istruzione e formazione, politiche attive del lavoro, innalzamento dei livelli salariali, servizi alle persone e welfare universalistici. “Se vogliamo coinvolgere tutte le forze e i talenti di cui questo paese dispone – sottolinea l’esperto – è evidente che occorre agire su tutte le condizioni che finora hanno lavorato al contrario, per escludere anziché includere. Ora il PNRR può e deve essere anche lo strumento per risolvere molte distorsioni strutturali di lungo periodo”.