Può la visione di una fiction televisiva costituire la linea di confine tra permanenza in azienda e licenziamento? La risposta parrebbe un ovvio no, ma scoprendo la vicenda giudiziaria di un dipendente ex Ilva si può notare che non tutto è sempre come sembra.
Recentemente la Corte di Cassazione ha salvato il posto di lavoro a un uomo che si era reso responsabile – secondo l’accusa di Arcelor-Mittal – di aver leso l’immagine aziendale, avendo invitato i colleghi a vedere uno sceneggiato tv, in cui venivano chiarite le conseguenze sanitarie dell’attività in un’acciaieria. Una sorta di licenziamento “per ritorsione”, quindi, che tuttavia si è risolto in un nulla di fatto, grazie al reintegro disposto dai giudici di piazza Cavour. Ricordiamo che Arcelor-Mittal aveva comprato l’ex Ilva all’asta nel 2018, assumendosi il ruolo di risanare una società compromessa da anni di indagini per danni ambientali.
Dopo queste premesse su un fatto che, negli ultimi anni, ha aperto un vivace dibattito, vediamo insieme gli aspetti chiave della vicenda e il perché della decisione della Suprema Corte.
Indice
Il caso in breve
Nell’aprile 2021 un esperto tecnico di controllo costi fu licenziato in tronco e senza preavviso dallo stabilimento siderurgico presso cui lavorava. Apparentemente un recesso unilaterale ingiustificato, visto che non c’erano precedenti disciplinari che potessero far pensare ad un concreto rischio di perdere il posto. Il lavoratore era impiegato nell’azienda da oltre due decenni e era inserito stabilmente negli uffici della direzione.
C’era però un particolare: l’uomo fu scoperto a condividere, su un gruppo chiuso Facebook, un messaggio che invitava alla visione su Canale 5 della fiction Svegliati Amore Mio, per alcune asseriti parallelismi tra lo sceneggiato e la travagliata storia dell’ex Ilva. Una delle attrici protagoniste recitava la parte di una ragazza che, a seguito dell’inquinamento industriale, aveva iniziato a soffrire di una leucemia che si rivelò letale.
Online l’uomo non aveva fatto riferimenti diretti, né aveva mai citato Taranto o fatto considerazioni sulla gestione Arcelor-Mittal, ma un collega subdolamente fece uno screenshot del suo post e lo mostrò in direzione. Ne seguì l’iniziativa dell’azienda, con la sospensione per 5 giorni in attesa delle controdeduzioni che arrivarono 48 ore dopo, ma non si rivelarono sufficienti a salvare il posto di lavoro.
Nella lettera di licenziamento comparivano infatti parole che lasciavano poco spazio ai dubbi:
Tale decisione è stata assunta poiché la condotta contestata è di tale gravità da non consentire la prosecuzione anche solo temporanea del rapporto di lavoro. Le espressioni utilizzate concretizzano vere e proprie denigrazioni ai danni della scrivente anche la mera condivisione sulla propria bacheca virtuale di un post offensivo integra gli estremi della diffamazione.
Il dipendente si è così rivolto alla magistratura, impugnando il licenziamento per giusta causa.
Il percorso giudiziario e l’esito in Cassazione
L’iter processuale è stato lungo è travagliato. Ma dopo circa tre anni e mezzo, e i vari gradi di giudizio, la recente pronuncia della Cassazione ha ribadito le conclusioni favorevoli al dipendente, già adottate in tribunale e in appello.
Il ricorso del lavoratore condusse, in primo grado, alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento e all’ordine di reintegro nella fabbrica, dopo quattro mesi dall’allontanamento. Il post Facebook finito nel mirino dello stabilimento Arcelor-Mittal – divenuto poi Acciaierie d’Italia Spa – non era quindi lesivo e tale orientamento fu ribadito anche nella fase dell’appello, con un’ulteriore pronuncia che rigettava il reclamo del datore di lavoro.
Le accuse nei confronti dell’uomo erano destinate a cadere, in quanto anche in appello il giudice rimarcò che:
il fatto contestato è insussistente, perché nessun comportamento di rilievo disciplinare, idoneo ad offendere il datore di lavoro o lederne la reputazione, è stato posto in essere.
In estrema sintesi la linea dei magistrati era la seguente:
- il citato post Fb non conteneva alcun riferimento né diretto né indiretto al datore di lavoro;
- l’uomo non aveva perciò in alcun modo leso immagine e reputazione dello stabilimento, ma si era limitato ad esercitare – legittimamente – il diritto costituzionale a esprimere un’opinione, condividendo il suo pensiero con i colleghi di lavoro.
In Cassazione l’esito si rivelò identico, con la dichiarazione di illegittimità del licenziamento disciplinare e il successo finale di un lavoratore che, in questi anni, è finito suo malgrado sotto i riflettori per una vicenda che ha acceso le polemiche sindacali e ha creato un vero e proprio caso mediatico.
Diritto di opinione, peculiarità e limiti
Il dipendente, intervistato dai mezzi di informazione, ha anche spiegato di essersi sentito privato di un diritto fondamentale, quello di poter esprimere la sua opinione, fino a cercare di piegare la sua dignità individuale. Ma ricordiamo che il diritto di esprimere ciò che si pensa è assicurato, oltre che dall’art. 1 dello Statuto dei lavoratori, dall’art. 21 della Costituzione, per il quale:
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Tale articolo costituzionale tutela espressamente la libertà di espressione, ma quest’ultima è da intendersi limitata nel contesto lavorativo da alcuni specifici principi – al fine di garantire l’equilibrio tra la libertà individuale e il rispetto della reputazione del datore di lavoro.
Come visto nel caso di cui sopra, i dipendenti possono certamente esprimere opinioni su questioni e temi generali, ma che riguardano in qualche modo il proprio ambiente di lavoro. Tuttavia il personale aziendale deve sempre evitare di danneggiare la reputazione e il decoro dell’azienda.
In altre parole, il diritto di opinione del lavoratore è legittimo – e lo è anche nel caso del dipendente ex Ilva di cui abbiamo parlato – ma attenzione: tale diritto non deve essere scaltramente utilizzato come strumento per screditare il posto di lavoro o danneggiarne l’immagine pubblica. La giurisprudenza infatti richiede sempre un equilibrio tra libertà di espressione e rispetto per l’azienda, mettendo al centro il principio di lealtà e buona fede contrattuale.