Abbiamo parlato spesso di Domenico Vacca, un noto e apprezzato stilista che ha vestito celebrità del mondo dello spettacolo e di Hollywood: Glenn Close, Ivana Trump, Al Pacino e Dustin Hoffman sono solo alcuni nomi, ma la lista è molto più lunga. Un talento, quello di Vacca, che trova le sue origini nella nonna andriese, una brava sarta che ha portato avanti una sartoria con 20 dipendenti negli anni Quaranta. E dopo una parentesi che lo ha visto impegnato come a avvocato per noti brand di moda (Hugo Boss, Versace), decide di dare libero sfogo al suo estro artistico come stilista, ideando capi di grande classe realizzati con cura e attenzione ai materiali impiegati.
E’ proprio per queste ragioni che Domenico Vacca è stato definito “ambasciatore del lusso italiano in America” dal New York Times, lo stesso giornale da cui ha preso le distanze per un’inchiesta sul presunto sfruttamento delle sarte nel sud Italia. Tema, quello del “Made in Italy”, che Domenico Vacca conosce bene: è stato infatti appena insignito a Roma del Premio Margutta per la categoria moda, proprio come ambasciatore del “Made In Italy” negli Stati Uniti.
Nessuno meglio di lui poteva aiutarci ad approfondire questo tema in cui leggi, creatività e tessuti s’intrecciano per creare il terzo marchio più conosciuto al mondo: il Made in Italy.
Sul “Made in Italy” molto viene detto e scritto, eppure ancora c’è tanta ignoranza e disinformazione. Ti va di fare un po’ di chiarezza spiegandoci cosa prevede la legge perché un capo possa essere definito “Made In Italy”?
Il Made in Italy e’ regolato a livello comunitario e a livello nazionale. Per la normativa comunitaria Il “Made in” di un prodotto viene comunemente definito marchio di origine. Il concetto di origine non deve essere confuso con quello di provenienza di un bene. Quest’ultima indica il luogo da cui un bene viene spedito, mentre l’origine indica il luogo di produzione. L’apposizione del marchio d’origine “Made in Italy” dovrebbe dunque significare che un bene è stato prodotto in Italia. Purtroppo per il valore del nostro “Made in”, questo è vero solo in parte e spesso anche prodotti forgiati quasi interamente all’estero possono apporre il marchio “Made in Italy”. Per determinare il Paese di origine di un prodotto, occorre riferirsi alla normativa europea in materia di origine non preferenziale del prodotto. Nonostante i tentativi di chiarimento, permangono numerose incertezze circa la possibilità di individuare l’ultima trasformazione e le lavorazioni sufficienti a determinare il marchio di origine. Ciò anche perché la normativa da tenere in considerazione non si limita al Codice Doganale dell’Unione. C’è ancora tanto da fare a livello legislativo comunitario e nazionale per chiarire il “Made in”, speriamo che questa nuova tornata di parlamentari europei appena eletta possa fare chiarezza e sopratutto che le leggi e le sanzioni vengano applicate. Noi produciamo tutto in Italia e possiamo vantarci di avere prodotti 100% Made in Italy, ma la concorrenza di prodotti fatti al di fuori dell’Italia su cui viene apposto il marchio Made in Italy senza aver fatto nessun passaggio produttivo in Italia e’ tanta e un intervento più rigido da parte dei legislatori nazionali e comunitari e dalle forze dell’ordine e’ necessario. Il marchio Made in Italy e’ il terzo marchio più conosciuto al mondo e se l’Italia fosse una multinazionale lo dovrebbe difendere ad oltranza e con tutte le sue risorse come fanno le multinazionali proprietarie dei primi due marchi più conosciuti al mondo: Coca Cola e Apple.
Tempo fa un’inchiesta del NYT puntava il dito contro lo sfruttamento di alcune sarte del Sud Italia, le quali avrebbero prodotto capi per grossi brand ad un costo irrisorio. Ti va di fare chiarezza su un tema così importante, anche a difesa di tutti gli imprenditori che – come te – sono ambasciatori del “Made In Italy” nel mondo?
A volte si e’ vittime della ricerca dello scoop a ogni costo da parte di alcuni giornalisti. Penso sia stato il caso del giornalista del New York Times che ha scritto l’articolo. Produciamo in Puglia da più di dieci anni, conosco tante realtà produttive in Puglia e non ho mai visto aziende che sfruttavano i loro lavoratori. Il Made in Puglia, soprattutto nell’abbigliamento, e’ una eccellenza, e pertanto costa. In Puglia ho visto aziende fallire per non essere state in grado di pagare dei buoni salari hai propri dipendenti piuttosto che costringerli a lavorare per poco. Gli uffici del lavoro e i sindacati in Puglia sono molto attenti alle condizioni dei lavoratori nel settore dell’abbigliamento e soprattutto trovare dei buoni sarti/e non e’ facile e quindi la scarsità determina per loro una retribuzione più che dignitosa.
Ad ogni modo il tema merita sicuramente un approfondimento, per questo ti faccio una domanda da “uomo della strada”: da cosa dipende il costo così elevato di certi capi “Made In Italy”?
Made in Italy e’ ormai sinonimo di prodotto ben fatto, e’ il terzo marchio più famoso nel mondo, e’ sinonimo di eccellenza. L’Italia non ha una grande capacità produttiva, l’Italia non e’ la Cina o l’America, il 90% delle aziende italiane sono piccole e media imprese, noi non produciamo quantità, produciamo qualità, la qualità può essere prodotta, lavorata e trasformata solo da lavoratori/artigiani super esperti e queste professionalità, giustamente, costano.
Attualmente la produzione cinese influisce in qualche modo sul “Made In Italy”?
Influisce tantissimo. I cinesi sono abilissimi a copiare il Made in Italy e a venderlo in tutto il mondo a prezzi molto più bassi e con una produzione veloce e quasi illimitata, e molti consumatori, anche italiani, attirati dal prezzo comprano prodotti cinesi di cui noi siamo maestri nella produzione per poi capire che sono prodotti che non valgono nulla. Spero che per primi gli italiani si schierino per il sostegno del Made in Italy comprando sempre più prodotti italiani e si facciano così tutti ambasciatori dei prodotti più belli e più buoni del mondo.
Si parla sempre più di sostenibilità ed etica anche in relazione al settore fashion, in contrapposizione alla produzione industriale di massa, la cosiddetta “fast fashion”. Quali garanzie di sostenibilità – anche ambientale – dà il “Made In Italy?
Molte aziende italiane oggi sono sensibili alla sostenibilità, dai loro impianti produttivi alle fonti di energie pulite all’attenzione agli scarichi industriali. La predisposizione verso la sostenibilità l’etica produttiva e aziendale esiste, bisognerebbe aiutare sempre di più a perseguirle con aiuti finanziari da parte dello stato e della comunità europea.
La tua storia e la tua carriera sono state celebrate ieri a Roma, in occasione del Premio Margutta, che ti è stato assegnato come ambasciatore del “Made In Italy” negli Stati Uniti. Che effetto ti fa questo riconoscimento?
Essere riconosciuto per quello che hai fatto per il tuo Paese all’estero e’ un onore per me, e soprattutto mi da la carica di continuare a promuovere l’Italia e il Made in Italy nel mondo in tutto quello che faccio. E’ stata una mia scelta ben precisa, fin dal lancio del mio marchio Domenico Vacca, di produrre il 100% in Italia. Il paese del lusso è l’Italia, il paese della qualità è l’Italia. I marchi del lusso francesi producono in Italia, quando non producono nell’est dell’Europa o in Cina. Sono molto grato ad Antonio Falanga, Grazia Marino e tutto il comitato del Premio Margutta per questo riconoscimento e per la loro sensibilità nel voler riconoscere e premiare il settore moda e soprattutto quest’anno di aver voluto onorarmi con il premo della moda come ambasciatore del Made in Italy negli Stati Uniti mostrando, anche loro, una particolare sensibilità alla promozione dell’Italia e del Made in Italy nel territorio italiano e anche fuori, visto che porterò questo prestigioso premio con me a New York.
In molti settori che legano la creatività all’imprenditorialità, l’Italia primeggia in quanto a cervelli, ma non certo in quanto a burocrazia. Quali criticità incontra uno stilista oggi in Italia?
Penso il problema più importante sia la mancanza di fondi, di finanziamenti. Per un giovane stilista e’ praticamente impossibile oggi lanciare un proprio marchio. Le banche non finanziano, le aziende produttive non hanno liquidità per poter finanziare la produzione, la distribuzione si riduce sempre di più ed e’ sempre più nelle mani di department stores che non comprano ma accettano i prodotti in conto vendita. E’ una situazione un po’ particolare per i giovani stilisti. Una delle possibilità e’ la vendita online ma anche lì ci vogliono comunque soldi per farsi conoscere nel mondo digital.
In questo senso, cosa offrono gli Stati Uniti in più rispetto al nostro Paese?
Offrono un mercato più grande, un mercato da 327 milioni di consumatori, dove una singola nicchia e’ grande quanto tutto il mercato italiano.