Greenwashing, problema di cultura e integrità di impresa. L’intervista

Il tema del Greenwashing è prima di tutto un problema di cultura d’impresa e di integrità. Ce ne parla Emanuele Bertoli

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Donatella Maisto

Esperta in digital trasformation e tecnologie emergenti

Dopo 20 anni nel legal e hr, si occupa di informazione, ricerca e sviluppo. Esperta in digital transformation, tecnologie emergenti e standard internazionali per la sostenibilità, segue l’Innovation Hub della Camera di Commercio italiana per la Svizzera. MIT Alumni.

L’autenticità della comunicazione e dei comportamenti di una impresa sono l’unica vera manifestazione di una strategia reattiva e attiva sui temi di sostenibilità. Il tema del Greenwashing è prima di tutto un problema di cultura d’impresa e di integrità.

Approfondiamo questo argomento con Emanuele Bertoli, innovatore, osservatore, entrepreneur, investor, strategist, creative matchmaker, nonché membro United Nations Fashion Charter on Climate Change (UNFCCC) ed esperto UNECE WP.6 on Standards e European Commission Education and Culture Executive Agency.

Come coniuga i ruoli istituzionali e quello di imprenditore rispetto alla tematica sostenibilità e Greenwashing?

Trovo che le Istituzioni siano parte del problema, ma se non ci fossero dovremmo inventarle, per questo ho deciso di impegnarmi come membro ed esperto in ambito sostenibilità e blockchain, oltre che per condividere con menti geniali e straordinarie la speranza di poter aiutare la transizione economica verso un modello di impresa sociale e generativa, ma soprattutto solidale.

Il mio essere imprenditore, al contempo, mi permette di guardare anche in un’altra prospettiva questo fenomeno e mi accorgo che le nuove generazioni sono competenti, preparate, positivamente agguerrite. Questo atteggiamento e approccio indebolisce la portata negativa del Greenwashing costringendo le grosse Corporate a essere più trasparenti, coerenti e concrete.

C’è un grado di maturazione diversa sia a livello di conoscenza che di sensibilità da parte dei consumatori rispetto alle tematiche inerenti la sostenibilità, a cui si aggiungono cambiamenti dei contesti normativi e mutazioni dei contesti mediatici. Chi dovrebbe fare di più e cosa andrebbe fatto per ridimensionare il fenomeno del Greenwashing?

Le imprese dovrebbero migliorare la comunicazione. Ancora troppi errori vengono commessi in tal senso e ancora troppo spesso non si tiene conto della maturità sia digitale che di conoscenza dei consumatori.

Per ridimensionare il fenomeno del Greenwashing andrebbe, ad esempio, sempre dichiarato il perché un prodotto viene definito “sostenibile” o etichettato come tale, che parametri di sostenibilità assolve e in che ambiti è migliorativo rispetto a prodotti simili.

Dal punto di vista normativo sarà sicuramente determinante l’introduzione di tassonomie e metriche armonizzate, riconoscibili e misurabili. Anche in questo campo la tecnologia blockchain è in grado di fare la differenza e i progetti a cui sto collaborando in ambito Nazioni Unite, OECD e Comunità Economica Europea vanno in questa direzione.

Per le società quotate le commissioni di sorveglianza, ad esempio SEC, ma anche CONSOB, stanno ponendo maggiore attenzione a tal fine. I cosiddetti watchdogs si stanno concentrando sulle corporate che comunicano di essere sostenibili nei loro report e presto sanzioneranno quelle che non saranno in grado di dimostrare le loro asserzioni. È già capitato che venissi chiamato da note società di consulenza e revisione statunitensi per fornire delle indicazioni in merito.

Qual è la percezione del fenomeno Greenwashing a livello globale?

La percezione del fenomeno a livello globale è di una generale disaffezione nelle ‘’etichette’’ e di una richiesta sempre maggiore di misurabilità e fiducia, oltre che di coinvolgimento attivo degli stakeholder e non più solo passivo siano essi fornitori, società finanziarie o consumatori.

Il legislatore dovrebbe essere oggi più che mai promotore di blockchain pubbliche e trasparenti a tutela dei consumatori, dei cittadini e dei mercati.

Il Greenwashing è solo strategia di marketing?

Ancora oggi sì. Si pensi, ad esempio, al modo con cui si promuovono campagne di vendita di prodotti declamando che non contengono determinate sostanze o si utilizzano pratiche dannose per l’uomo e l’ambiente laddove gli stessi prodotti sono già loro proibiti, oppure si applica un’etichetta eco-friendly a supporto di campagne solidali per giustificare l’acquisto di prodotti altamente inquinanti.

Non è più possibile, per un’azienda, sottrarsi al confronto con le tematiche ambientali e della sostenibilità. In un contesto in cui “tutti comunicano l’ambiente” diventa cruciale farlo in modo distintivo rispetto agli altri. Quali sono i segnali di tipo comunicativo che dovrebbero indurre i consumatori a dubitare e pensare che si tratti di Greenwashing?

Semplicemente quando non c’è prova o dimostrabilità di una comunicazione sostenibile siamo di fronte a un fenomeno di Greenwashing. In un breve futuro, grazie alle nuove tecnologie e al supporto legislativo, la verificabilità pubblica del dato potrà essere realtà.

Le nuove tecnologie potrebbero venire in supporto per arginare questo fenomeno? Se sì, quali e come andrebbero usate?

Assolutamente sì, in particolare la Blockchain, che in maniera diretta o indiretta ho già menzionato nelle precedenti risposte. I legislatori, i governi, le istituzioni e le grandi imprese guardano alla blockchain con interesse e grandi aspettative.

Il vero cambiamento ci sarà, però, solo ed esclusivamente se parleremo di blockchain pubbliche. Solo loro possono essere realmente validanti e, grazie ai recenti sviluppi tecnologici, anche a bassissimo consumo di energia, quindi amiche dell’ambiente.