Cos’è la moda etica e le differenze con quella sostenibile

Ecco quali sono i requisiti della moda etica e in cosa consistono le differenze con la sostenibile

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Redazione

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Un po’ tutti amiamo fare shopping: può essere divertente, rigenerarci e permetterci di rilassarci con amici e familiari. Non tutti però sanno che, quella della moda, è la seconda industria più inquinante al mondo, così come spesso degradante per le condizioni dei lavoratori. In un periodo storico in cui la salvaguardia del nostro Pianeta e dei suoi delicati equilibri si è fatta critica, è allora importantissimo iniziare a familiarizzare con la cosiddetta moda etica, che cerca di cambiare la nostra vita e abbracciare nuove regole.

Allo stato attuale, il settore del glamour cerca di soddisfare le richieste dei propri clienti, così come i loro gusti eterogenei, utilizzando processi di produzione che purtroppo inquinano l’ambiente che ci circonda e non tutelano adeguatamente la forza lavoro. L’obiettivo è di conseguenza quello di riplasmare la filiera per renderla più sostenibile, includendo tanto i principi della moda ecosostenibile quanto quelli della già citata moda etica. In molti sono ormai convinti che il mondo del fashion debba sottoporsi ad un intenso processo di trasformazione, volto alla tutela delle persone e dell’ambiente.

Moda etica: significato e differenze con la moda sostenibile

Come avrete probabilmente già capito, moda etica e sostenibile non sono la stessa cosa. Come non lo è la cosiddetta moda ecosostenibile. Questi tre termini vengono molto spesso utilizzati nel linguaggio comune come sinonimi e in modo inappropriato, per via di filiere dai criteri molti simili. La realtà è diversa, in quanto una differenza sostanziale esiste: la moda sostenibile,  chiamata anche eco-fashion, ha il fine di instaurare un rapporto del tutto armonioso sia con l’ambiente che con le persone, prendendo spunto tanto dalla moda ecosostenibile che da quella etica.

Nel caso della moda sostenibile, i marchi cercano di avere il minore impatto ambientale possibile, soddisfacendo le esigenze della generazione presente senza compromettere la capacità di quelle future di soddisfare le proprie. In modo ancora più semplice, si concentra sulla cura dell’ambiente, riducendo l’impatto negativo ad opera dell’uomo sulla natura che lo circonda. E che negli ultimi anni non sta rispettando come dovrebbe. I passaggi, analizzando la filiera, sono numerosi: dalla realizzazione del filato alla tintura, toccando il finissaggio e infine lo smaltimento del capo a fine vita.

La moda etica, giocoforza, è quella che sceglie di dare importanza a chi è coinvolto nel processo di lavorazione di un capo. Istintivamente ci verrebbe da pensare solo a chi fisicamente taglia e cuce i vestiti, ma il percorso che porta i capi nei negozi è decisamente più lungo e complesso. Prima di essere confezionato e di diventare un abito, il tessuto è infatti stato filato, e ancora prima c’è stato qualcuno pagato per raccogliere le materie prime, i fiocchi di cotone, ad esempio, tosare la lana, filare e lavorare il lino o la seta. Tutto ciò che insomma serve per portare avanti uno dei mercati più importanti nell’economia mondiale.

Per l’abbigliamento etico è vitale verificare che tutte le persone coinvolte in ogni fase della filiera produttiva vengano retribuite in modo equo e che lavorino in condizioni dignitose. Il concetto può essere esteso per alcune aziende leader del settore anche agli animali eventualmente coinvolti, come per esempio i bachi da seta o le pecore per la lana. Generalmente, comunque, quando parliamo di moda etica e sostenibile non possiamo di certo stare a trascurare le tematiche legate alle pessime condizioni di lavoro a cui vengono sottoposti moltissimi dipendenti delle fabbriche produttive in molte aree del mondo.

In quest’ottica, il tema della sostenibilità si è fatto particolarmente caldo e attuale sul finire degli anni ’90. Proprio in quegli anni vennero a galla svariati casi di sfruttamento dei lavoratori da parte di importanti marchi di moda. Esempio eclatante è quello di Levi’s, che venne accusata di pagare i propri dipendenti in modo inadeguato nel 1992. Due anni dopo fu la volta di Nike: nonostante il colosso dell’abbigliamento sportivo portasse avanti una campagna contro il lavoro minorile, sfruttava proprio dei minori per confezionare alcuni dei suoi prodotti più venduti. La rivale Adidas finì nell’occhio del ciclone nel 1997, scoperta a sottoporre i prigionieri politici in Cina ai lavori forzati, il tutto in cambio di somme di denaro esigue.

Verso l’abbigliamento etico

Quelli citati nel paragrafo precedente sono tutti esempi in un “mare” assai più grande, che ha visto emergere diversi avvenimenti all’esplodere dell’increscioso fenomeno della fast fashion. Questo termine si riferisce alla tendenza di andare a ricreare la moda da passerella, utilizzando però materiali low-cost e a ritmi produttivi elevatissimi. Nel tentativo di soddisfare una domanda che negli ultimi decenni si è fatta sempre più elevata, alcuni dei protagonisti del settore hanno scelto di sacrificare la qualità degli indumenti confezionati, sottovalutando il problema ambientale e allo stesso tempo pure quello etico.

Il risultato sono migliaia di vite umane coinvolte nel processo di produzione che molto spesso vengono sfruttate approfittando della manodopera a basso costo facilmente reperibile all’estero. Allo stesso tempo, l’industria del bello si è costruita attorno una fastidiosa patina di indifferenza, costellata di domande mancate e di regole della natura violate. Dal punto di vista ambientale, i dati sono impressionanti, considerando che il 20% circa dell’inquinamento delle acque mondiali è dovuto alla produzione di vestiti. Si stima che ogni secondo venga buttato in discarica l’equivalente di un camion di spazzatura pieno di vestiti, e che meno dell’1% del materiale usato per produrre abbigliamento venga riciclato.

Per garantire una moda focalizzata sull’etica e sulla responsabilità, alle aziende della moda è richiesto un certo livello di trasparenza, assicurato per il momento da ispezioni periodiche condotte dagli stessi marchi. Con queste, è possibile verificare le effettive condizioni di lavoro nei loro principali centri produttivi. Online e attraverso apposite etichette sui capi, sono poi a disposizione dei consumatori tutte le informazioni sul prodotto finito, permettendo loro di poter eseguire degli acquisti etici ed oculati. Non solo, in questo nuovo tipo di moda sono altrettanto importanti le collaborazioni con progetti umanitari che mirano a incentivare lo sviluppo economico di alcune comunità situate in zone del mondo sottosviluppate.

Un aspetto che viene tenuto in gran considerazione in parallelo alle condizioni di lavoro degli operai negli stabilimenti di produzione dei grandi marchi. Nel panorama moderno, sono molti i marchi e gli stabilimenti produttivi che hanno deciso di aderire a questo approccio rivoluzionario all’universo della moda: da Adidas a Valentino, passando per H&M, Nike, Puma, Mango, Levi’s, Benetton e Zara, e senza dimenticare il distretto tessile di Prato. Con scelte diverse, questi giganti internazionali dell’industria del fashion si stanno impegnando a percorrere una strada più etica e sostenibile.

Se per la moda etica si ricorre a strumenti che potrebbero sicuramente essere migliorati dal punto di vista burocratico, per quella sostenibile non mancano certificazioni rilasciate da entità locali o internazionali che garantiscono la provenienza e la natura dei materiali impiegati. Dai fatto, si tratta di marchi che possono e devono guidare i consumatori verso prodotti che sono stati realizzati nel totale rispetto degli standard di sostenibilità ambientale e sociale. Nei prossimi paragrafi le scopriremo nel dettaglio, così da farci trovare pronti al momento del nostro prossimo acquisto eco-solidale.

Certificazione Gots (Global organic textile standard)

La certificazione Global organic textile standard, conosciuta con l’acronimo Gots, è considerata leader mondiale nella definizione tanto dei criteri ambientali quanto di quelli sociali nel campo della moda. Criteri che di fatto devono guidare la produzione e la lavorazione delle fibre organiche, a partire dalla raccolta fino all’etichettatura del prodotto finito.

La Gots è stata sviluppata da un gruppo piuttosto numeroso di organizzazioni che operano da anni nell’agricoltura biologica. Per questo la certificazione in esame controlla con costanza ogni minimo anello della filiera tessile, con l’obiettivo di verificare la totale assenza di sostanze chimiche che non sarebbero conformi ai requisiti base sulla tossicità e sulla biodegradabilità stabiliti dai governi.

Certificazione Ocs (Organic content standard)

Il certificato Ocs, acronimo di Organic content standard, è promosso dall’associazione chiamata Textile Exchange, nata allo scopo di individuare e condividere realtà meritevoli all’interno dell’industria tessile e dell’abbigliamento. Si tratta di una vera e propria garanzia per i consumatori che intendono andare ad acquistare abiti confezionati con materie prime di natura organica. Con l’Organic content standard viene quindi validato il contenuto dichiarato dalle aziende di moda produttrici in merito alla provenienza delle fibre naturali da agricoltura biologica e alla loro tracciabilità lungo tutta la filiera produttiva.

Certificazione Grs (Global recycle standard)

La Global recycle standard, o Grs, è invece una certificazione che viene applicata sia ai prodotti sia alle aziende che li producono, e che utilizzano materiali riciclati all’interno delle loro creazioni. Il certificato è stato sviluppato sempre dall’ente Textile Exchange, e qui in Italia viene gestito da Icea, l’Istituto per la certificazione etica e ambientale. Il compito finale è quello di dimostrare che i materiali dichiarati come 100% riciclati siano stati effettivamente ottenuti da scarti lavorati attraverso processi totalmente ecologici e sostenibili per l’ambiente.

Certificazione Fsc (Forest stewardship council)

Nell’ampio spaccato della moda etica, esiste infine un certificato specifico per il settore forestale e per i prodotti derivati dalle foreste, legnosi e non. Ci riferiamo a quello rilasciato dal Forest stewardship council, vale a dire l’Fsc, che attesta che la materia prima impiegata nel capo d’abbigliamento arriva da foreste gestite in maniera responsabile e nel totale rispetto dei lavoratori, degli abitanti e del territorio di riferimento.