Israele non si fermerà davanti a nulla pur di centrare i suoi obiettivi strategici. Questa è la certezza più grande di questa guerra, inasprita dopo il maxi attacco da parte di Hamas il 7 ottobre 2023, ma in corso da quasi ottant’anni. L’ultimo attacco sferrato a Doha, in Qatar, contro i vertici politico-militari del gruppo palestinese ne è solo l’ultima testimonianza.
Che lo Stato ebraico non si sarebbe fermato a Gaza, moltiplicando e tenendo caldi i fronti di conflitto, su QuiFinanza l’avevamo anticipato a inizio anno. Quelli che sembrano colpi sparati per raptus fanno infatti parte di un piano egemonico molto preciso.
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Perché Israele ha attacco Doha?
Nelle stesse ore in cui si cercava di far luce su un altro attacco – quello da parte di un drone ai danni di una nave della Global Sumud Flotilla – le forze israeliane hanno lanciato missili contro il presunto complesso che si ritiene ospitasse i dirigenti di Hamas, incluso il gran capo Khalil al-Hayya.
Non è chiaro, ne lo sarà in maniera univoca, se il raid sia andato del tutto, parzialmente o per nulla a segno. Ciò che è certo è che lo Stato ebraico ha confermato i suoi obiettivi bellici, legati fra loro come cerchi concentrici:
- fiaccare la resistenza di Hamas, che da quasi 3 anni non accenna a capitolare nella Striscia di Gaza;
- mostrare ad alleati e nemici che le armi israeliane possono raggiungere qualunque nascondiglio e territorio straniero e restare sostanzialmente impunite;
- evidenziare in maniera incontrovertibile che Israele gode del pieno appoggio o, al limite, della connivenza degli Stati Uniti anche nel caso in cui bombardi il suolo nazionale di un alleato degli americani come il Qatar – tra l’altro Paese mediatore e sede dei negoziati mediorientali tentati finora.
Un quarto obiettivo riguarda il premier Benjamin Netanyahu, il suo gabinetto di guerra e la porzione di governo più estremista che ne appoggia le decisioni. La sopravvivenza dell’esecutivo di “Bibi” è legata alla prosecuzione dello stato di guerra.
In altre parole, la leadership di Israele ha tutto l’interesse a far fallire le trattative su una tregua nella Striscia. Da questo proposito scaturiscono anche il lancio dell’offensiva terrestre su Gaza City, l’accelerazione del genocidio e degli altri crimini di guerra a danno dei civili palestinesi e l’aumento della violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania.

Stati Uniti e Qatar sapevano dell’attacco
Il ministero degli Esteri del Qatar ha condannato l’attacco israeliano come una palese violazione del diritto internazionale, affermando che il Paese
non tollererà questo comportamento sconsiderato e la continua manomissione della sicurezza della regione.
Retorica semivuota, perché Doha era stata pienamente avvertita dell’offensiva.
Uno schema che abbiamo visto anche nelle precedenti escalation con l’Iran, anche nel bombardamento dei siti nucleari effettuato a giugno.
Nel pomeriggio del 9 settembre, la Casa Bianca ha dichiarato che Israele aveva notificato a Washington l’intenzione di attaccare la leadership di Hamas a Doha e gli Stati Uniti hanno poi passato l’informazione alle autorità qatariote.
Nei giorni scorsi Donald Trump aveva minacciato terribili conseguenze per Hamas se non si fosse deciso ad accettare le condizioni americane per un cessate il fuoco con Israele.
Subito dopo il raid, lo stesso presidente americano ha ammesso di essere stato preventivamente avvertito dell’attacco imminente, ma di essersene lavato le mani bollando l’iniziativa come
una decisione personale di Netanyahu.
Un espediente che ormai abbiamo imparato a (ri)conoscere bene.
Per restituire in pieno la totale ipocrisia delle dichiarazioni pubbliche dei leader coinvolti nella contesa mediorientale, si sappia che Washington ha al contempo affermato di essere a conoscenza dei piani israeliani (e dunque, in quanto egemone, di averli tacitamente approvati) e di essere rammaricata dal raid su Doha. Beffa delle narrazioni imperiali.
La Casa Bianca, attraverso la portavoce Karoline Leavitt, ha infatti criticato ufficialmente la mossa di Tel Aviv, avvenuta
mentre l’amministrazione Trump continua a impegnarsi per garantire un cessate il fuoco (tra Stato ebraico e Hamas). Bombardare unilateralmente all’interno del Qatar, una nazione sovrana e stretto alleato degli Stati Uniti che si sta impegnando molto per assumersi coraggiosamente dei rischi insieme a noi per mediare la pace, non favorisce gli obiettivi di Israele o dell’America.
Cosa vuole davvero Israele?
L’obiettivo strategico di Israele è la creazione di zone cuscinetto tra sé e le collettività avversarie a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Siria. Si tratta di un principio geopolitico perseguito da tutte le potenze, chiamato profondità difensiva. Lo stesso che, per intenderci, ha scatenato l’operazione militare russa in Ucraina.
A questo si legano altri moltiplicatori di escalation.
In primis la crisi interna al Paese (diviso tra diversi gruppi sociali ed etnici) e la conseguente cieca fiducia in una propaganda feroce che vuole costruire un Grande Israele “dal fiume al mare”, in controllo cioè di tutto il territorio compreso tra il Giordano e il Mediterraneo.
L’importanza del sostegno degli Stati Uniti
Altri elementi sono la reazione emotiva all’umiliazione subita il 7 ottobre 2023 e la messa in pericolo degli Accordi di Abramo, altro grande tassello strategico per lo Stato ebraico. Accordi basati proprio sulla celebrata potenza militare e nucleare di Tel Aviv, alla quale i Paesi arabi dovrebbero affidarsi per essere difesi da minacce superiori come l’Iran.
L’offensiva e la resistenza di Hamas hanno messo a rischio questa percezione. Perderla del tutto rappresenterebbe la peggiore sconfitta per Israele, ma al momento è un rischio evitato.
La migliore garanzia offerta dagli Accordi di Abramo coincide col motivo per il quale le monarchie arabe non hanno smesso di aderirvi anche dopo la guerra prolungata che sta tenendo tuttora in tensione la celebratissima potenza militare di Israele: la protezione e il supporto degli Stati Uniti.
Un sostegno che è divenuto inscalfibile nel Nuovo Millennio e che ha conosciuto una svolta decisiva nel 2014 con la firma del Strategic Partnership Act, che ha potenziato la relazione bilaterale oltre lo status di Major Non-Nato Ally (Importante alleato fuori dalla Nato).
I due Paesi hanno portato al massimo livello la cooperazione in materia di difesa ed energia.
Il conto del sostegno statunitense allo Stato ebraico è di oltre 3,8 miliardi di dollari annui. Giusto per fugare ogni dubbio sulle presunte direttrici morali di potenze militari che fanno tutt’altro mestiere.