Guerra in Ucraina, quando e come finirà: 5 fasi, 4 scenari

A oltre un anno dall'invasione russa dell'Ucraina, la guerra appare ancora lunga e tremendamente attuale. Con lo scontro tra Usa e Russia (e Cina) sullo sfondo

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Sulla guerra in Ucraina è stato detto tutto e il contrario di tutto. Al di là delle analisi, delle previsioni, della propaganda e degli acrobatici piani di pace, resta la tragedia umana di migliaia di morti tra i civili. La trincea, il carro armato, l’elmetto, il fucile, le bombe, i soldati come d’autunno sugli alberi le foglie. Immagini d’altri tempi, lampi di un passato che pensavamo appartenere solo ai libri. Da un anno siamo ripiombati indietro di un secolo, persi nella nebbia della guerra che oggi è (ancora) d’Ucraina e ieri era Mondiale.

La retorica della guerra non consente di sfuggire allo schema perdenti-vincitori. Quando il conflitto finirà, ci sarà qualcuno che ha vinto e qualcun altro che ha perso. Dopo aver fallito la guerra lampo un anno fa, la Russia non può permetterselo, piuttosto implode. Ma in realtà perde in ogni caso: se vince, vincerà contro il diritto internazionale (imposto dagli occidentali) e avrà quasi tutto il mondo contro; se perde, avrà ammesso la sua debolezza geopolitica nei confronti del blocco a guida Usa.

Secondo quasi tutti gli analisti, solo gli Usa possono mettere fine al conflitto. Prima o poi l’invio periodico e limitato di armi occidentali ai combattenti ucraini non basterà più o si interromperà per le continue pressioni interne. Bisognerà considerare l’invio di truppe della Nato. A quel punto l’Occidente dovrà gettare la maschera: fare davvero e direttamente la guerra alla Russia oppure lasciare che la Russia prevalga. Quali sono gli scenari per la fine della guerra? A che punto siamo arrivati e come ci siamo arrivati?

Le cinque fasi della guerra in Ucraina

La battaglia alla morte, da “non un passo indietro”, che sta insanguindando le macerie di Bakhmut è l’immagine tragicamente perfetta della guerra russa: un obiettivo politico, senza alcun valore strategico o militare, che i russi hanno praticamente conquistato al prezzo di perdite indicibili. Vladimir Putin ricerca qualunque successo sul campo per spingerne la portata con la propaganda (qui abbiamo parlato della guerra “sporca” della Russia, con contenuti inediti). Tutto questo perché Mosca ha fallito la famigerata guerra lampo che aveva preventivato dall’autunno 2021, quando aveva cominciato ad ammassare uomini e mezzi nel Donbass, già dilaniato dai combattimenti dal 2014 (qui abbiamo parlato dei bambini ucraini deportati in Russia per essere “rieducati”).

Dati inizialmente per vincitori, figurarsi se non con un piano a prova di nemico, i russi si sono invece dimostrati poco saldi nelle loro azioni belliche. I russi hanno applicato il principio di Napoleone (“on s’engage et puis on voit”, “si comincia e poi si vede”) forse convinti della loro superiorità. A grandi linee avevano stabilito le direttrici dell’avanzata e le tappe della conquista, ma non avevano fatto i conti con l’Osint (Open source intelligence), che ne ha svelato tattiche e movimenti sul campo, e con il sostegno occidentale a Kiev. Dal punto di vista miliatare, la guerra in Ucraina si può dunque dividere in cinque fasi principali.

La prima fase: l’invasione

Nelle primissime ore del 24 febbraio 2022 una colonna di mezzi corazzati russi invade il territorio ucraino, ad appena 72 ore dal riconoscimento ufficiale da parte di Putin delle Repubbliche separatiste di Donestk e Lugansk. Partono anche gli attacchi alla capitale Kiev, col chiaro intento di “spaventare” e rovesciare il governo Zelensky e giungere a un ribaltone politico, instaurando un regime “amico” che sostenesse la propagandistica tesi della “liberazione” per mano russa dal giogo “neonazista e occidentale”.

Come sappiamo, la guerra lampo è però fallita. Gli ucraini, consigliati e supportati dalla Nato, non hanno difeso la linea di confine, attirando i russi verso l’interno del Paese (usando tra l’altro una tattica tipicamente russa; per informazioni chiedere a Napoleone e Hitler). I russi non hanno frenato l’avanzata, allungando l’elastico della logistica finché non si è rotto. A quel punto la ritirata era scritta e la resistenza ucraina ha fatto il resto, oltre a un fattore fondamentale: le popolazioni russofone del luogo non hanno fornito il sostegno agli occupanti che Mosca si aspettava.

Per fare un esempio pratico degli “errori di valutazione” compiuti dal Cremlino: i carri armati sono stati impiegati dai russi fin dalle primissime fasi del conflitto, ma finendo preda a decine dei Javelin ucraini, il lanciamissili a spalla che già in Siria (come nella Guerra del Kippur del ’73, del resto) ha reso anche la fanteria un nemico temibilissimo per i mezzi corazzati. Il perché? Da un lato per l’essenziale supporto dell’intelligence statunitense, che già dal novembre 2021 aveva analizzato nel dettaglio i movimenti militari russi alla frontiera; dall’altro per l’endemica corruzione degli ambienti militari di Mosca. Esaminando i primi carri armati russi distrutti a marzo 2022, ad esempio, si è visto che le torrette dei mezzi corazzati erano prive di componenti fondamentali. Qualcuno si è intascato i fondi, lasciando l’allestimento incompleto.

La seconda fase: la frenata russa

Il colpo di frusta ha imposto ai russi la ricerca di un piano B, mostrando tutte le debolezze della catena di comando e del controllo del Cremlino. Un massimo esempio di questo è stata la richiesta, inoltrata da Putin in persona, all’esercito ucraino di compiere un colpo di Stato e destituire Zelensky.

La netta dimostrazione di debolezza da parte di Mosca dà slancio alla controffensiva degli occupati, motivati anche dal fatto di combattere in e per casa propria, soprattutto attraverso tattiche di guerriglia urbana e largo uso della tecnica shoot and scoot (letteralmente “colpisci e nasconditi”). I cecchini ucraini colpiscono al cuore le truppe nemiche, decimandone i generali. Da lì la decisione del Cremlino di affidarsi principalmente ai mercenari del Gruppo Wagner per gli scontri casa per casa, porta per porta.

La terza fase: lo stallo

Niente di nuovo sul fronte orientale. I russi ridimensionano i loro obiettivi e puntano a rinforzare le loro posizioni nel Donbass, dando vita a sanguinosi combattimenti. In questa fase si registrano anche i primi veri errori da parte ucraina, come le scelte sull’impiego delle riserve nei territori orientali.

La quarta fase: l’inganno

La Russia non affonda e l’Ucraina prende coraggio. Kiev annuncia una controffensiva su Kherson e fa in modo che Mosca ci creda. Dopo aver attirato i russi a sud, contrattacca a nord. Non è che il Cremlino sia ingenuo, ma il supporto dell’intelligence occidentale si è rivelato fondamentale per la buona riuscita dell’operazione. Putin non può tollerare una tale situazione di svantaggio e ordina la mobilitazione parziale, che garantisce all’esercito 300mila uomini. Molti finiranno in prima linea senza l’addestramento necessario, prelevati da prigioni e dai gruppi di veterani, ormai anziani, e perfino disabili.

La quinta fase: la tempesta prima dell’uragano

La quinta macro fase della guerra è quella attuale. La mobilitazione russa ha senza dubbio sortito i suoi effetti sul campo, con una ripresa dell’offensiva russa e la chiusura della striscia che affaccia sul Mar Nero, con Mariupol come punto cardine, rasa al suolo e luogo nei mesi precedenti della strenua resistenza dei combattenti dell’acciaieria Azovstal, divenuta uno dei simboli del conflitto, la Stalingrado del nostro tempo. Il controllo russo si estende fino alla Crimea, nonostante gli attacchi al fondamentale Ponte di Kerch, e rende il Mar d’Azov un lago russo.

Dei 300mila iniziali, restano ancora almeno 100mila mobilitati russi spendibili nell’operazione militare speciale. Con lo spettro di un’ulteriore mobilitazione, già iniziata secondo l’intelligence britannica, che ha portato al confine orientale altri 150mila uomini, per un totale di mezzo milione. La superiorità demografica della Russia è innegabile, come anche l’incapacità di schierare tutti gli effettivi per evidenti lacune logistiche. Rispetto agli ucraini, i russi possono fare dunque il cosiddetto turnover, cioè il ricambio delle unità.

E’ la strategia che sembra in atto ancora adesso, con un fine primario: logorare gli ucraini per cristallizare le conquiste e l’occupazione al suo stato attuale. Non un passo indietro, come recita il terribile ordine impartito da Stalin ai suoi durante la Battaglia di Stalingrado, vinta dai sovietici esattamente 80 anni fa. La palla è stata lanciata in mano agli avversari: ora tocca a Kiev penetrare nei territori occupati, mentre Mosca si trincera nelle sue piazze forti con più uomini.

A che punto siamo?

Al momento l’ampiezza del conflitto si è ridotta su un fronte di circa 150 chilometri e le forze sono molto concentrate. I russi occupano la porzione est del Paese, dal Lugansk alla Crimea passando per Mariupol. E hanno dichiarato annesse anche le regioni di Kherson e Zaporizhzhia, pur non controllandole nella loro interezza. Anzi, proprio in questi ultimi due oblast la controffensiva ucraina sta continuando a impattare. La guerra di logoramento premia però Mosca sul lungo periodo, motivo per cui Kiev chiede armi più potenti all’Occidente per sconfiggere anche il tempo.

Le perdite effettive di entrambi gli schieramenti sono difficili da stabilire, anche se l’intelligence britannica afferma che i russi perdono tra i 300 e i 500 uomini al giorno. Un numero enorme per chi ragione in termini umani e non militari, ma la guerra è tragicamente guerra e chi attacca in combattimenti di questo tipo solitamente registra più perdite.

Per perdite in termini bellici si intendono morti e feriti, è bene ribadirlo. Stime di intelligence parlano di circa 200mila perdite tra i russi e di 150mila tra gli ucraini. Un discorso a parte meritano invece gli sfollati, la maggior parte dei quali fuggiti nella confinante Polonia, soprattutto donne, anziani e bambini. Molti altri, soprattutto questi ultimi, sono stati invece deportati (ne abbiamo parlato qui). Il 9 febbraio, infine, proprio nel giorno in cui Zelensky volava a Bruxelles, la Russia ha anticipato quella che secondo tutti sarebbe stata una grande offensiva di primavera, nel Lugansk. E che vedrà il coinvolgimento delle finora poco utilizzate forze aeree e navali, in azioni coordinate.

Come finirà la guerra?

Alla fine della fiera, come si dice, questa è la vera domanda. Il proliferare dei piani di pace (dell’ultimo, quello cinese, abbiamo parlato qui) è un segnale della volontà generale di giungere a un accordo. Accordo che, visti gli interessi diametralmente opposti di ucraini e russi, non potrà che risolversi in una tregua momentanea, col conflitto armato destinato a scoppiare nuovamente (come dopo gli accordi di Minsk).

Ma questa è una guerra totale in tutti i senti, militare ma anche energetica, alimentare ed economica, e che coinvolge in tutto e per tutto gli Stati Uniti, considerati i veri arbitri del conflitto: da una parte vogliono trionfare assieme agli ucraini per imporsi anche in quell’area, dall’altra vogliono sconfiggere la Russia senza annientarla, per poi magari reinserirla in un programma di respiro europeo (come aveva “predetto” Kissinger), sempre in posizione di mediatori privilegiati. In questo modo lo Zio Sam non lascerebbe l’Orso russo in pasto al Dragone cinese, che già ha legato a sé il confinante alleato (non amico) dal punto di vista economico, energetico e infrastrutturale.

Il conflitto è ormai esistenziale per entrambe le parti. Chi perde non perde una guerra, ma la patria. Putin non può permettersi altri passi indietro, pena la fine politica sua e della Russia che costruito in un ventennio. Questo conflitto è parte della sua strategia, e di quella della nazione in generale, fin dal 2001, quando appena diventato presidente ha cominciato ad ammassare uomini e mezzi al confine ucraino. Zelensky, da parte sua, è già assimilabile a eroe nazionale, con gli Usa che piuttosto ora cercano di stemperarne i propositi bellici per arrivare presto a un negoziato. Con ogni probabilità nessuna delle due parti raggiungerà una vittoria piena sul terreno, visto che la guerra d’attrito con trincee e scontri d’artiglieria stile Prima Guerra Mondiale consente faticosissime avanzate di pochi chilometri alla volta, e a costo di moltissime perdite. Ecco di seguito quattro scenari che riassumono grossomodo le possibilità di sviluppo della guerra.

Scenario 1: restaurazione pre 2014

Il primo scenario è assimilabile al “sogno” dell’Ucraina: riavere indietro tutti i territori annessi unilateralmente, conquistati e occupati, tornando di fatto alla situazione prima del 2014. Compresi Crimea e Donbass, dunque. Per riuscire in questa “restaurazione”, Zelensky ha pronto un piano in 10 punti che prevede, in primis, una serie di Stati garanti che scongiurino future escalation e l’imputazione della Federazione Russa per crimini internazionali.

Si tratta di uno scenario inaccettabile per Mosca, che dunque farà di tutto per non trovarsi in una condizione di svantaggio tale da subire questa soluzione. Nel caso però dovesse essere sconfitta sul campo, l’Occidente imporrebbe la “soluzione ucraina”. Zelensky dovrà inoltre fare i conti con una Crimea in cui l’opinione pubblica appare sempre più ostile a qualsiasi cessione di sovranità.

Scenario 2: Donbass e Crimea alla Russia

Quello della Crimea è un ruolo di primo piano negli scontri sul campo e nei negoziati, perché rappresenta la penisola strategica con cui la Russia si proietta di fatto al Mediterraneo e al mondo. Se Mosca riuscisse a imporsi sul terreno al punto da indurre gli Stati Uniti a “fermare” la controffensiva ucraina, otterrebbe un negoziato favorevole, conservando il controllo su Donbass e sulla striscia di Mariupol che taglia fuori l’Ucraina dal Mar d’Azov. E potrebbe realizzarsi uno degli obiettivi che consentirebbero a Putin la “sopravvivenza”, anche se sarà esposto allo sdegno della comunità internazionale, che a quel punto sceglierebbe di chiudere ogni porta al Cremlino.

Il tutto senza dimenticare che la guerra non frena gli affari. Fonti russe hanno confermato che anche nel 2022 Mosca ha versato a Kiev la sua quota per l’affitto del porto di Sebastopoli, che durerà sulla carta fino al 2042. Nonostante la Crimea sia stata annessa, nonostante il conflitto.

Scenario 3: fischio dell’arbitro

Se, come sembra al momento, nessuno dei due schieramenti riuscirà a prevalere sull’altro dal punto di vista militare, allora interverranno gli “arbitri”. Come nel calcio di una volta, c’è una terna: il primo fischietto è nella bocca degli Stati Uniti, le bandierine in mano a Cina e Turchia. Washington ha il potere di mettere la parola fine alle forniture di armi e addestramento agli ucraini e, dunque, alla guerra. Pechino ha stretto sempre più a sé l’Orso russo, stringendo patti sempre più vincolanti per quanto riguarda commercio, energia e infrastrutture comuni.

Anche Ankara non è da meno: dall’inizio del conflitto autentico “acrobata” che fornisce droni a Kiev, siede come membro della Nato e strizza l’occhio a Mosca, diventando anche mediatore per il trasporto del grano dai porti occupati. Quando queste tre potenze lo decideranno, se lo decideranno, il tavolo dei negoziati non potrà più essere rinviato. E a quel tavolo questi Paesi si proporranno come garanti della pace, aumentando la loro influenza e disegnando il futuro di Russia e Ucraina “dall’esterno”.

Scenario 4: colpo di Stato e una “nuova Ucraina”

Non parliamo dei confini ridisegnati di un Paese invaso. O almeno non solo. Scongiurando un quarto scenario che preveda un’escalation nucleare (per scaramanzia, ma anche per questioni di opportunità: l’arma atomica va usata contro un nemico strategico, non certo contro un vicino), analizziamo invece la possibilità di un colpo di Stato in Russia che rovesci il regime di Putin. Nelle stanze buie del Cremlino è in atto una guerra di potere sotterranea e si agita un sistema che vede in Putin, e nel presidente in generale, soltanto la punta di un iceberg fatto di apparati “padroni” tra oligarchi e siloviki (di cui avevamo parlato qui). Non a caso si parla di Stato profondo.

Ma dopo dopo il golpe, chi prenderebbe il posto di Putin? Alexander Bortnikov, direttore dell’FSB? Nikolai Patrushev? Sarebbe davvero diverso? Putin è un prodotto della Russia imperialistica e nazionalista, e non il contrario. Cambiata la pelle (o la testa), il serpente resta sempre serpente. Alcuni membri del Cremlino, ma anche autorevoli esponenti della Federazione, da tempo avvertono un crescente malcontento e Putin potrebbe subire pressioni o essere spodestato dall’interno o da forze incontrollabili, come quelle guidate dagli integralisti Yevgeny Prigozhin (capo del Gruppo Wagner, di cui abbiamo parlato qui) o dal leader ceceno Ramzan Kadyrov.

Chiunque guidi la Russia, si troverà a esercitare la sua influenza su zone “calde” all’interno di ex Repubbliche sovietiche. Come Donetsk e Lugansk in Ucraina, per capirci. La Transnistria è ad esempio un altro Donbass pronto a esplodere, filorussa e indipendentista e piena di 1.500 soldati della Federazione, proprio all’interno della piccola Moldavia. Per non parlare dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia tra Georgia e Caucaso del Nord. Polveriere pronte a infiammarsi con una scintilla.