Prezzi sempre più alti e carrelli sempre più vuoti: cosa succede

La famiglie italiane si impongono una "dieta forzata" perché i prezzi dei beni alimentari sono troppo alti. Intanto i supermercati incassano di più. Ecco perché

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

L’aumento spropositato dei prezzi ormai non fa più notizia. L’inflazione galoppa spedita e costringe gli italiani “alla dieta”, con consumi nettamente più contenuti ma a fronte di una spesa maggiore. In altre parole: si spende di più per comprare di meno, con rinunce importanti di acquisti anche sul mangiare.

I dati Istat certificano come l’impatto dei rincari abbia causato una crisi delle vendite al dettaglio (ne avevamo parlato anche qui). Nel contempo si assiste però a un “paradosso”: gli incassi dei supermercati crescono. Com’è possibile?

Giù i consumi, su i prezzi

Secondo l’Istituto di statistica, a marzo si è registrata una variazione nulla in termini di valore, mentre quelle in volume sono apparse in flessione dello 0,3% rispetto al mese precedente. Un fenomeno che coinvolge principalmente i beni alimentari, con un calo in volume più forte (-0,7%) rispetto ai generi non alimentari (-0,1)%. In pratica l’aumento dei prezzi delle materie prime e di energia e trasporti viene scaricato sul groppone e sulle tasche dei contribuenti, che sempre più spesso non riescono ad affrontare l’incremento di costo. Il quale, va detto, viene applicato dalle catene di vendita in misura nettamente maggiore rispetto all’aumento generale dei costi (anche i biglietti aerei sono più cari: l’obbligo Ue fa aumentare i prezzi).

L’impennata record dei prezzi appare ancora più evidente se si fa il confronto con i dati di marzo 2022: le vendite al dettaglio risultano in aumento in valore del 5,8%, ma calano in volume del 2,9%. Andamenti di segno analogo si riscontrano sia per le vendite dei beni alimentari (+7,7% in valore e -4,9% in volume), sia per i non alimentari (+4,1% in valore e -1,3% in volume).

Quanto costa il carrello alle famiglie italiane

Secondo Assoutenti, al netto dell’inflazione la spesa alimentare degli italiani cala complessivamente di 7,1 miliardi di euro su base annua, con una riduzione media di 377 euro se si considera un nucleo con due figli. Una situazione denunciata anche dall’Unione Nazionale Consumatori: “Prosegue la cura dimagrante degli italiani. Una dieta forzata dovuta ai prezzi lunari, rincari che ora sono ingiustificati, frutto di speculazioni belle e buone”.

Secondo lo studio dell’associazione, se le vendite alimentari in volume scendono del 4,9% su marzo 2022, rispetto a marzo 2021 crollano del 10,8%, -7,7% su marzo 2020, mese già di pandemia Covid”. Traducendo in euro questa diminuzione di volumi consumati, si può stimare che le spese alimentari “sono scese in media di 276 euro annui a famiglia a prezzi del 2021“. Stando al Codacons, gli acquisti calano in volume per complessivi 21,8 miliardi di euro annui, con una minore spesa pari in media a -848 euro a famiglia.

I supermercati (e non solo) guadagnano di più

Dall’altro lato degli scaffali, aumentano invece i ricavi dei supermercati, che segnano un +7,8%, sovracompensando l’inflazione del mese considerato. I piccoli negozi di quartiere e i minimarket hanno chiuso il mese con un incremento dei profitti più contenuto (+3,5%), ma il vero boom lo evidenzia ancora una volta l’e-commerce (+10,3%).

A chiedere l’intervento del governo sono anche le organizzazioni del commercio, con Federdistribuzione che sottolinea l’urgenza di tutelare il potere d’acquisto delle famiglie. “Occorre favorire la ripresa della domanda interna e garantire stabilità alle nostre aziende e alle numerose filiere agroalimentari del Made in Italy“. Per Confesercenti, “il dato peggiore si registra per i piccoli negozi, con una stima che va oltre il -5% in tre mesi, sempre in volume”. Serve un taglio del cuneo fiscale, che però rischia di rivelarsi “insufficiente” se non accompagnato da una “riduzione della pressione fiscale che grava sui lavoratori attraverso una defiscalizzazione degli aumenti retributivi”.