Ilva di Taranto, la storia infinita: la nascita, il sequestro, ArcelorMittal e gli aiuti del Governo

Dalla nascita al sequestro dell'acciaieria, fino ad ArcelorMittal e all'entrata del governo con Invitalia: cos'è successo all'acciaieria

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Una vicenda lunghissima, che ha visto arresti, perdite di posti di lavoro, polemiche infinite sui rischi ambientali e per la salute. Una storia che ha come protagonista l’acciaieria Ilva di Taranto, il più grande impianto siderurgico d’Europa. Iniziata nel 2012, l’ultima vicenda è di pochi giorni fa, con il governo che negli ultimi giorni ha riprovato a rilanciare l’acciaieria, dopo la rottura con ArcelorMittal, che gestisce la struttura dal 2018.

L’ex Ilva ha una storia molto travagliata. È in crisi da molti anni ma è considerata troppo grande e strategica per essere lasciata fallire, e allo stesso tempo la sua presenza a Taranto è da tempo contestata per l’inquinamento che produce e i rischi per l’ambiente e la salute delle persone. Nonostante il tempo trascorso, dal 2012 ad oggi, la vicenda rimane ancora senza una conclusione definitiva.

La storia dell’Italsider di Taranto

Innanzitutto, un po’ di storia. Nel luglio del 1960, nasce l’Italsider di Taranto, un’imponente struttura di proprietà pubblica. L’ubicazione dello stabilimento nel quartiere Tamburi occupa una vasta superficie di oltre 15 milioni di metri quadrati. Attraversando una fase difficile negli anni Ottanta, l’acciaieria affronta una svolta nel maggio del 1995, quando viene acquisita dal gruppo Riva. Questo gruppo, fondato nel 1954 da Emilio insieme al fratello Adriano, conferisce all’azienda il nome attuale di Ilva, derivato dal nome latino dell’isola d’Elba, luogo in cui veniva estratto il ferro che alimentava gli altiforni soprattutto all’inizio dell’Ottocento. La privatizzazione dell’Italsider prende avvio con il governo Dini e si completa sotto il primo governo Prodi.

I Riva, incaricati di revitalizzare l’azienda, si trovano presto di fronte a gravi problemi legati all’inquinamento dell’area industriale, con conseguenti preoccupazioni per il crescente numero di decessi per tumore registrati nella zona. Nel 2012, la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’acciaieria a causa di gravi violazioni ambientali. Il giudice istruttore afferma che l’impianto ha causato – e continua a causare – “malattia e morte” poiché coloro che gestivano e gestiscono l’Ilva hanno proseguito in attività inquinanti con piena consapevolezza e intenzionalità, perseguendo la logica del profitto e trascurando le più basilari norme di sicurezza. Per evitare danni ai posti di lavoro degli operai e garantire la tutela durante i lavori di risanamento, il governo Monti emana un decreto che consente la continuazione della produzione dell’azienda, nonostante il sequestro degli impianti.

I Riva proprietari dell’azienda – Emilio, Adriano e i loro figli Fabio e Nicola – vengono arrestati. Nel 2013, anche il presidente della Provincia di Taranto, Giovanni Florido, finisce in manette per mano dei militari della Guardia di Finanza.  A giugno 2013, il governo interviene emettendo un decreto che commissaria l’Ilva. A ottobre 2013 sul registro degli indagati figura anche Nichi Vendola, in quel momento presidente della Regione Puglia.

L’arrivo di ArcelorMittal e la minaccia di abbandono

Dopo tre anni di commissariamento del governo, nel gennaio del 2016, viene pubblicato il bando di gara con l’invito a manifestare interesse per l’Ilva, stabilendo il termine ultimo entro 30 giorni a partire dal 10 gennaio. I Commissari straordinari scelgono ArcelorMittal. Nel piano proposto, si prevede la necessità di 6.000 esuberi al termine del piano aziendale, scatenando le preoccupazioni dei sindacati che reagiscono sollevando proteste. Ma il 5 giugno 2017, l’allora ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, firma il decreto di assegnazione ad ArcelorMittal.

A luglio 2018, il ministro dello Sviluppo Economico del neonato governo Conte 1, Luigi Di Maio, solleva preoccupazioni sulle presunte irregolarità della procedura di gara per la cessione dell’Ilva e chiede all’Autorità nazionale anti-corruzione di avviare un’indagine. In risposta, l’autorità guidata da Raffaele Cantone rileva criticità nell’iter della gara, ma sottolinea che l’eventuale sospensione della procedura può essere valutata solo dal Ministero dello Sviluppo Economico (Mise), nel caso in cui sussista, come prevede la legge, un interesse pubblico specifico all’annullamento. Il governo richiede anche un parere all’Avvocatura dello Stato. Di Maio definisce la gara “viziata”, ma afferma che non è annullabile poiché si sta ancora valutando la questione dell’interesse pubblico.

All’inizio di novembre 2019, ArcelorMittal, dopo prolungate trattative con il governo – ora sotto la guida di Conte 2, con Luigi Di Maio che è passato agli Esteri e sostituito allo Sviluppo Economico dal ministro Stefano Patuanelli – comunica in una lettera la sua intenzione di abbandonare lo stabilimento e restituirlo allo Stato italiano. Tra le principali ragioni di questa decisione figurano il ritiro dello scudo penale e le decisioni dei giudici tarantini che, secondo l’azienda, renderebbero impossibile attuare il suo piano industriale. Inoltre, la multinazionale indiana affermò che il mercato dell’acciaio era talmente peggiorato nell’ultimo anno che proseguire l’attività sarebbe stata una perdita troppo grossa.

Dopo mesi di negoziati estenuanti, il 4 marzo viene finalmente firmato un accordo tra ArcelorMittal e i commissari dell’ex Ilva. L’accordo prevede la modifica del contratto di affitto e acquisizione al fine di rinnovare il polo siderurgico con base a Taranto e la cancellazione della causa civile avviata a Milano per l’ipotesi di abbandono da parte della multinazionale franco-indiana.

Il tentativo del governo di salvare l’acciaieria

Nel dicembre 2020, lo Stato italiano rientra nella gestione delle acciaierie dell’ex Ilva. ArcelorMittal e Invitalia (azienda controllata interamente dal ministero dell’Economia) siglano un accordo che consente all’Agenzia, controllata dal Ministero dell’Economia, di acquisire il 50% (successivamente aumentato al 60%) della partecipazione azionaria di AmInvestCo Italy, la società veicolo di ArcelorMittal responsabile della gestione degli impianti, con l’obiettivo poi prenderne interamente il controllo nel 2024. Al tempo (e anche ad oggi), l’ex Ilva è posseduta per il 68% da ArcelorMittal e per il restante 32 dallo Stato tramite Invitalia.

Era stato stabilito che Invitalia avrebbe investito in AM InvestCo in due tranche. Il primo investimento da 400 milioni di euro doveva essere effettuato entro il 31 gennaio 2021 e avrebbe dato a Invitalia il controllo congiunto su AM InvestCo. Il secondo investimento da 680 milioni di euro era previsto entro maggio del 2022. I 400 milioni arrivarono nell’aprile 2021.

Intanto, nel 2022 la produzione si è ridotta di molto per cercare di consumare meno energia: dai 4 milioni di tonnellate di acciaio del 2021, nel 2022 la produzione si è fermata a 3. Su quattro altiforni, i grandi impianti usati nelle acciaierie per produrre ghisa a partire da minerali di ferro e carbone, da dicembre 2023 ce n’è attivo soltanto uno.

I 680 milioni invece sono arrivati a inizio 2023. Il prestito ha un duplice scopo: inizialmente, è stato concesso per affrontare una crisi di liquidità, fornendo così risorse finanziarie necessarie all’azienda, ma si tratta di un prestito “convertibile”, il che implica che può essere trasformato in capitale sociale dallo Stato italiano. Ciò significa che il governo ha l’opportunità di aumentare la sua partecipazione nell’azienda prima del previsto, ancor prima del 2024.

L’intento del governo è riequilibrare il rapporto tra i soci privati (come ArcelorMittal) e pubblici (come Invitalia), attraverso, ad esempio, una revisione della struttura dirigenziale. L’idea sottostante è quella di incrementare la presenza dello Stato nell’ex Ilva, mantenendo comunque una partnership con i soci privati.

I sindacati non si sono mostrati soddisfatti del prestito e dell’accordo: sono contrari a un ennesimo prestito pubblico senza un immediato cambio ai vertici dell’azienda, la cui gestione è considerata inadeguata e fallimentare.

La fine del processo: condanne ai Riva e Vendola. E le condanne dalla Corte dell’Uomo

Intanto a maggio 2021, si conclude il dibattimento del processo denominato “Ambiente Svenduto”, che ha investigato sul presunto disastro ambientale causato dall’Ilva di Taranto durante gli anni di gestione della famiglia Riva. Complessivamente, 47 sono gli imputati, di cui 44 persone fisiche (dirigenti ed ex dirigenti dell’acciaieria, politici e imprenditori) e tre società (Ilva, Riva Fire e Riva Forni elettrici).

La pubblica accusa, nel corso del processo, richiede varie condanne, tra cui 28 e 25 anni di carcere per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, e 5 anni per l’ex presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso. Secondo la tesi degli inquirenti, Vendola avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato (per il quale viene richiesta una condanna a un anno per favoreggiamento), per influenzare la posizione dell’agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva.

Il 31 maggio 2021, la Corte d’Assise di Taranto emana le sentenze definitive, condannando Fabio e Nicola Riva a 22 e 20 anni di reclusione, Nichi Vendola a tre anni e mezzo, e Giovanni Florido, l’ex presidente della provincia di Taranto, a tre anni.

I giudici definiscono “disastrosa” la gestione dei fratelli Riva, ma allargano il quadro anche al contesto in cui Ilva agiva e usano il termine “agghiacciante”. Le scelte dei vertici Ilva avrebbero messo “in pericolo concreto la vita e la integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento” e quella “dei cittadini di Taranto”.

Per le vicenda Ilva l’Italia è stata anche condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Due volte: nel 2019 e nel 2022. La Corte di Strasburgo ha condannato il nostro Paese per non aver garantito il diritto alla salute dei lavoratori dell’ex Ilva di Taranto e dei cittadini che vivono intorno all’acciaieria. Inoltre l’Italia è stata condannata per aver violato i diritti di un gruppo di cittadini di Taranto che avevano chiesto giustizia per i danni provocati alla loro salute dalle emissioni inquinanti.

Gli ultimi avvenimenti: il mancato accordo e il commissariamento

Se sembrava che tutto si stava risolvendo, con lo Stato italiano che avrebbe ripreso in mano l’acciaieria raggiungendo o il 66%, l’8 gennaio 2024 ci fu una rottura tra Invitalia ed ArcelorMittal per dare un ulteriore apporto di liquidità e un aumento di capitale in cui entrambi i soci avrebbero partecipato. Il governo ha dichiarato di aver “preso atto della indisponibilità di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimento, anche come socio di minoranza”. Secondo le stime, per ripianare la situazione di dissesto dell’ex ILVA sarebbero necessari circa 1,5 miliardi di euro.

Una decisione che ha portato Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, ad affermare che per non chiudere l’acciaieria ex Ilva serve un “intervento drastico” e per farlo c’è la necessità di “cambiare equipaggio alla guida per invertire la rotta”, aggiungendo che “non è più possibile condividere la governance con ArcelorMittal”.

Per l’acciaieria le strade sono due: l’acquisizione delle quote di ArcelorMittal da parte dello Stato, con l’azienda che ha chiesto 400 milioni per la buonuscita, oppure il ricorso all’amministrazione straordinaria, attivabile anche su richiesta del solo socio pubblico, secondo una norma del decreto Ilva del 2023. L’amministrazione straordinaria consentirebbe all’azienda di rimanere aperta, ma potrebbe aprire un lungo contenzioso legale tra lo Stato e ArcelorMittal, che potrebbe rendere ancora più incerto il futuro dello stabilimento e portare a un blocco immediato dei pagamenti ai fornitori, con conseguenze gravi sull’occupazione.

Se l’accordo tra le parti è considerato la soluzione migliore, la strada dell’amministrazione straordinaria è purtroppo la più vicina. Una decisione che ha ovviamente visto i sindacati furibondi: “L’amministrazione straordinaria è uno strumento invasivo che creerà problemi. Abbiamo avuto rassicurazioni un po’ scritte sul decreto, altre a voce. Sono disponibili a verificare quali possono essere le conseguenze per le aziende e dei lavoratori del sistema degli appalti”, ha affermato Rocco Palombella, segretario generale Uilm. Motivo per cui nei giorni scorsi in migliaia hanno protestato attorno la fabbrica: lavoratori, sindacalisti e imprenditori, uniti per sollecitare il governo ad adottare iniziative urgenti per scongiurare la chiusura dell’ex Ilva.

Il commissariamento porterebbe a grossi disagi anche per quanto riguarda i posti di lavoro: l’ex Ilva contava circa 10mila dipendenti nel 2017. ArcelorMittal ne ha ripresi 8.200, secondo l’accordo sindacale sottoscritto nel 2018; dopo dimissioni e prepensionamenti oggi restano circa settemila lavoratori di cui 2.500 in cassa integrazione ordinaria a rotazione. In fabbrica l’incertezza domina. “Perfino la manutenzione è diradata, gli impianti sono sempre più a rischio”, testimonia Francesco Brigati, segretario generale della Fiom di Taranto, lui stesso operaio alla ex Ilva in distacco sindacale.

I morti causati dall’acciaieria

I risultati della perizia epidemiologica condotta dai periti di parte nominati dalla Procura di Taranto per il periodo di sette anni includono i seguenti dati:

  • Un totale di 11.550 morti, con una media di 1.650 morti all’anno, principalmente per cause cardiovascolari e respiratorie.
  • Un totale di 26.999 ricoveri, con una media di 3.857 ricoveri all’anno, principalmente per cause cardiache, respiratorie e cerebrovascolari.

Concentrandosi sui quartieri Tamburi e Borgo, più vicini alla zona industriale, si sono registrati i seguenti dati:

  • Un totale di 637 morti, con una media di 91 decessi all’anno, attribuiti ai superamenti dei limiti di PM10 di 20 microgrammi per metro cubo, rispetto al limite di legge europeo di 40 microgrammi per metro cubo.
  • Un totale di 4.536 ricoveri, con una media di 648 ricoveri all’anno, attribuiti a malattie cardiache e malattie respiratorie, sempre imputabili ai suddetti superamenti dei limiti di PM10.

Secondo il Ministero della Salute, sebbene il problema del PM10 a Taranto sia inferiore rispetto all’inquinamento da PM10 in molte città del Nord Italia, è rilevante a causa della tipologia di inquinanti trasportati da queste particelle sottili.