Potere d’acquisto in calo causa inflazione, la vita dopo la pensione è sempre più difficile

Secondo l’Istituto si è registrato un aumento lordo dei salari del 6,8%, a fronte di un aumento dei prezzi attorno al 15-17%

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Nel corso di un quadriennio caratterizzato da un aumento dei prezzi compreso tra il 15 e il 17%, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti sono cresciute solo del 6,8%. Questo mette in evidenza la reale perdita di potere d’acquisto subita dagli italiani, nonostante alcuni modesti incrementi dei salari nominali che a fine 2023 hanno finalmente cominciato a superare in termini di crescita il costo della vita.

È quanto emerge dal report dell’Inps, lanciando un allarme sul potere d’acquisto degli italiani: al notevole recupero occupazionale, sia in termini di unità che di intensità di lavoro, “non è corrisposto un incremento dei redditi e delle retribuzioni tale da compensare pienamente la perdita di potere d’acquisto conseguente alla recrudescenza del fenomeno inflattivo”, secondo l’Istituto.

I salari orari in Italia

L’aumento delle buste paga si rivela ampiamente insufficiente a compensare l’impennata dell’inflazione innescata dal periodo post-Covid e dalla guerra in Ucraina. Gli effetti sono quelli che vediamo al supermercato e nella vita di tutti i giorni: i prezzi dei beni alimentari, che pesano significativamente sul bilancio delle famiglie a reddito più basso, sono aumentati infatti del 25%.

Per quanto riguarda i salari orari, la retribuzione media si attesta a 14,3 euro, ma ci sono 2,8 milioni di dipendenti con un salario inferiore ai 9,50 euro lordi (1.550 euro lordi al mese). Questo dato, tuttavia, non include i lavoratori agricoli e domestici, categorie particolarmente vulnerabili al fenomeno del lavoro povero. Circa 140mila dipendenti guadagnano meno di 5,30 euro all’ora, e se si considera una soglia di 8,50 euro, il numero sale a 1,4 milioni, pari al 10% del totale dei lavoratori non domestici e non agricoli.

Chi guadagna poco

Ma chi sono i lavoratori che percepiscono meno di 9,50 euro all’ora? Tra di essi, circa 400mila sono cassintegrati, mentre gli altri comprendono apprendisti, lavoratori a tempo determinato e occupati nelle piccole imprese. Nel 50% dei casi, si tratta di addetti part-time e il 24% è composto da stranieri.

In termini di settori, i lavoratori più malpagati sono i collaboratori familiari, con una retribuzione media giornaliera di 71 euro lordi per chi lavora full time per l’intero anno, e di soli 43 euro per coloro che sono impiegati part-time. Tra i settori imprenditoriali, non sorprende che il turismo abbia gli stipendi più bassi: alberghi e ristoranti offrono una paga giornaliera di 90 euro per i lavoratori full time, che scende a 45 euro per quelli part-time e non continuativi. Anche gli operai agricoli non se la passano bene, con una retribuzione giornaliera di 72 euro per quelli a tempo determinato.

Analizzando le forme contrattuali, la paga media giornaliera per i dipendenti a tempo indeterminato è di 103 euro (123 euro nel settore pubblico), mentre per i lavoratori a tempo determinato è di 66 euro, per gli apprendisti di 62 euro e per coloro con contratto intermittente di 57 euro. Inoltre, si registra un lieve incremento dei lavoratori sottoposti a contratti non firmati da Cgil, Cisl e Uil, passando dal 3,3% al 3,5%, anche se ci sono preoccupazioni fondate che questo dato possa essere sottostimato.

Retribuzioni in Italia

Considerando anche i contratti part-time e quelli stagionali, nel 2023 le retribuzioni medie si sono attestate a 25.789 euro lordi all’anno. Per i lavoratori a tempo pieno e attivi per l’intero anno, l’importo medio è salito a 39.176 euro.

A ottobre 2023, il 79% dei lavoratori, equivalente a circa 11,6 milioni di persone, ha beneficiato della riduzione contributiva. Questa percentuale sale all’84% tra le donne e supera il 90% tra i giovani sotto i 35 anni. L’importo medio mensile della decontribuzione, che si traduce in un incremento della retribuzione imponibile lorda, è stato di circa 100 euro (123 euro considerando solo i contratti a tempo pieno attivi per l’intero mese).

“L’effetto complessivo dell’esonero contributivo, del trattamento integrativo, delle modifiche alle aliquote e alle detrazioni – si sottolinea – ha notevolmente attenuato l’impatto dell’inflazione. Se analizziamo la variazione della retribuzione netta relativa al salario medio lordo degli anni 2021 e 2023, l’aumento passa dal 6,9% per il lordo a un più significativo 10,4% per il netto. Tuttavia, questo valore è ancora lontano dal recupero completo dell’inflazione”.

Perché questo è un problema per le pensioni

Tutti problemi che poi, all’arrivo della pensione, i lavoratori di oggi subiranno ancora di più. Lavorare poco, in modo intermittente e con retribuzioni basse porta inevitabilmente ad assegni esigui.

Per questo motivo il sistema pensionistico italiano è a rischio squilibrio per l’Inps, con un’età media di pensionamento fissata a 64,2 anni. “Le previsioni Eurostat per l’Ue riguardo agli andamenti demografici – si legge nello studio – suggeriscono un peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti, con rischi crescenti di squilibri per i sistemi previdenziali, in particolare nei paesi come l’Italia, dove la spesa previdenziale è relativamente elevata”. Il rapporto mette in evidenza che l’importo medio degli assegni pensionistici è aumentato: rispetto al 2022, l’importo lordo mensile medio delle pensioni è cresciuto del 7,1%, raggiungendo 1.373,17 euro. Il numero totale di persone che percepiscono un reddito pensionistico è di 16.205.319.

In Europa, l’età media di pensionamento è di 64 anni e 4 mesi per gli uomini e di 63 anni e 4 mesi per le donne. I tre paesi con cui gli italiani si confrontano più frequentemente hanno le seguenti età medie per la pensione: Germania 65,8 anni, Francia 64,8 anni e Spagna 65 anni. La pensione di vecchiaia a 67 anni è la più alta in Europa ed è condivisa da Italia e Danimarca.

Unc: “Calo potere d’acquisto, un problema irrisolto del Paese

“E’ il problema irrisolto del nostro Paese. Da oltre 30 anni, da quando nel 1992 è stata eliminata la scala mobile post referendum, le retribuzioni e le pensioni sono rimaste al palo e non sono state adeguate all’aumento del costo della vita, con la conseguenza che l’Italia da allora cresce poco, dato che i consumi rappresentano il 60% del Pil” afferma Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori.

“Bene fa il Governo a riconfermare il taglio del cuneo fiscale, ma non basta. Se pensiamo che nel 2023 per via di un’inflazione media pari al 5,7% una famiglia ha speso mediamente 1251 euro in più rispetto al 2022, un single tra 35 e 64 anni ne ha spesi 945, ci rendiamo conto che avere 100 euro in più busta paga, ossia quanto secondo i dati Inps di oggi corrisponde ad un aumento della retribuzione imponibile lorda, sia del tutto insufficiente” conclude Dona.