L’Italia, terza economia europea, deve la sua potenza di fuoco a un paradosso che dura da almeno quarant’anni: siamo uno dei Paesi europei con le Pmi più performanti, ma al contempo abbiamo perso quasi completamente la nostra capacità di esprimere grandi imprese in grado di competere nei mercati globali.
A trainare in maniera preponderante il sistema produttivo italiano sono letteralmente milioni di piccole attività.
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L’Italia è un Paese fondato sulle Pmi
È il quadro che emerge dai dati dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, secondo cui le piccole e medie imprese italiane non solo rappresentano la fetta più grande in assoluto del tessuto produttivo nazionale, ma, se confrontate con quelle di pari dimensione negli altri principali Paesi europei, risultano sistematicamente più performanti.
In Italia operano oltre 4,7 milioni di Pmi, pari al 99,9% del totale delle imprese. Queste attività impiegano 14,2 milioni di addetti, cioè il 76,4% dell’occupazione nazionale.
La controparte delle grandi imprese è numericamente irrilevante: appena 4.619 aziende, lo 0,1% del totale, che però occupano 4,4 milioni di lavoratori (23,6%).
Pmi leader per occupazione, valore aggiunto e produttività
Il contributo delle Pmi al sistema economico è altrettanto rilevante sul versante dei risultati: generano il 64% del fatturato nazionale e il 65% del valore aggiunto, mentre le grandi imprese si fermano rispettivamente al 36% e al 35%.
Estendendo il confronto all’intera Ue, le Pmi italiane emergono come un unicum positivo. Pur avendo una distribuzione numerica simile a quella dei principali competitor europei, il peso economico delle nostre Pmi è decisamente maggiore:
- contribuiscono per il 74,6% dell’occupazione totale, contro il 55,2% della Germania;
- generano il 62,9% del fatturato, a fronte del 35,8% tedesco;
- producono il 61,7% del valore aggiunto, rispetto al 46% tedesco.
Un dato sorprendente riguarda inoltre la produttività: le Pmi italiane più piccole (10-249 addetti) sono più produttive di quelle tedesche di 4.229 euro per occupato, pari a un vantaggio del 6,6%. Il divario diventa ancora più marcato nella fascia 50-249 addetti, dove le medie imprese italiane registrano un vantaggio del 15,1%, pari a oltre 10.000 euro per addetto.
Il quadro si capovolge però nelle microimprese (0-9 addetti): qui il gap negativo con la Germania resta molto ampio, -33%, ed è proprio su questa classe dimensionale che si concentra una parte significativa delle criticità strutturali del nostro sistema produttivo.
Pmi, perché non c’è il sorpasso completo sulla Germania
Il nodo centrale resta la dimensione d’impresa. In Italia, la produttività aumenta al crescere del numero di addetti, ma la maggioranza del tessuto produttivo è composta da micro attività che spesso non riescono a sostenere investimenti in innovazione, ricerca, digitalizzazione e capitale umano.
Se il Paese fosse in grado di aumentare in modo sistemico i livelli di investimento anche nelle micro imprese, l’Italia potrebbe superare la Germania in tutte le classi dimensionali sotto i 250 addetti. Va però ricordato che, a fianco dell’eccellenza del manifatturiero, persistono ritardi significativi nel settore dei servizi e del terziario, dove la produttività resta più bassa rispetto agli standard europei.
Grande impresa in via d’estinzione
L’altra faccia del paradosso italiano è la progressiva scomparsa delle grandi imprese. Fino agli anni ’80 l’Italia vantava campioni nazionali sia pubblici che privati: Montedison, Montefibre, Pirelli, Fiat, Italsider, Olivetti, Stet, Alumix, Angelini, solo per citarne alcuni.
La chimica, la metallurgia, l’automotive, la plastica, l’informatica: in molti settori eravamo ai vertici europei e talvolta mondiali.
Oggi l’Italia ha visto assottigliarsi il numero dei grandi player industriali. Il limite non è solo economico ma anche strategico.