“Ho portato Elena a morire in Svizzera”: Cappato si autodenuncia

Il tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni ha aiutato una 69enne malata terminale ad accedere al suicidio assistito in una clinica di Basilea. E ora rischia 12 anni di carcere

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Redazione

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“Ha diritto a suicidarsi anche chi non è attaccato alle macchine”. Ne è convinto e lo ribadisce con forza Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, dopo essersi autodenunciato alle autorità per aver accompagnato in Svizzera Elena, una donna di 69 anni con un cancro terminale che ha chiesto assistenza per praticare il suicidio assistito.

Cappato non è nuovo a iniziative di questo tipo ed è quindi perfettamente consapevole del rischio giudiziario che corre in Italia. Potrebbe essere condannato a 12 anni di carcere, ma spera in un iter simile a quello che lo ha portato all’assoluzione per il celebre caso di Fabiano Antoniani, alias Dj Fabo, che è servito da “motore” per il successivo intervento della Consulta che ha riconosciuto, a certe condizioni, il diritto all’aiuto al suicidio (ne abbiamo parlato qui).

Il caso e l’ultimo messaggio di Elena

“Elena ha confermato la sua volontà: è morta, nel modo che ha scelto, nel Paese che glielo ha permesso“. È stato sempre Marco Cappato a dare la notizia di aver aiutato Elena a esaudire la sua ultima volontà. Veneta di 69 anni, la donna era affetta da una grave patologia oncologica polmonare irreversibile con metastasi e si era rivolta all’Associazione Luca Coscioni per essere accompagnata in una clinica svizzera per potere accedere legalmente al suicidio assistito (qui abbiamo parlato invece della vicenda di Gabriele Marchetti, tetraplegico dopo una puntata di Ciao Darwin: l’accusa a Bonolis).

“Ho detto a mio marito e alla mia famiglia: sono davanti a un bivio. Posso prendere una strada un po’ più lunga che mi porta all’inferno. E un’altra, più breve, che mi porta in Svizzera. Ho scelto la seconda”, ha scritto Elena prima di recarsi oltre confine. Con queste parole Elena aveva spiegato le ragioni della sua scelta di rivolgersi a Marco Cappato e recarsi in Svizzera. “Ho poi detto a mio marito che se avesse provato a dissuadermi, fra un mese o due, quando mi avrebbe visto sofferente se ne sarebbe pentito”.

Nell’ultimo messaggio prima di spegnersi, la donna ha raccontato la sua storia e motivato la sua scelta. “A inizio luglio 2021 ho avuto la diagnosi di microcitoma polmonare. Il tumore era già di proporzioni importanti. Dall’inizio i medici avevano detto che avrei avuto poche possibilità di uscirne, ma anche se le possibilità erano poche ho ritenuto che valesse la pena tentare”.

“Purtroppo – ha proseguito Elena – non ho risolto il problema e mi è stato detto che avrei avuto ancora qualche mese di sopravvivenza. Non ho nessun supporto vitale per vivere, solo una cura a base di cortisone. Mi restava solo da aspettare che le cose peggiorassero. A questo punto, mettendo in pratica una convinzione che avevo già in tempi non sospetti, ho deciso di valutare la possibilità di terminare io la mia vita prima che lo facesse in maniera più dolorosa la malattia stessa. Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere per la propria vita e sulla propria fine liberamente. Io credo di averlo fatto dopo averci pensato parecchio. Avrei preferito finire la mia vita nel mio letto, tenendo la mano di mia figlia e mio marito ma questo non è stato possibile e ho dovuto venire da sola qui”.

Cosa ha stabilito la Consulta sul suicidio assistito

Esaminando il caso di Dj Fabo, nel 2019 la Corte Costituzionale ha assolto Cappato e riscritto le regole sul fine vita in Italia. I giudici hanno concluso che esiste un diritto al suicidio assistito in presenza di precise condizioni. Con la sentenza n. 242 del 25 settembre 2019, nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice Penale, la Consulta aveva definito “non punibile, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Ma quali sono queste condizioni? Nel documento redatto dai magistrati milanesi ne vengono indicate 4 fondamentali, secondo cui la persona che fa richiesta di sottoporsi al suicidio medicalmente assistito:

  1. deve essere pienamente capace di intendere e di volere e di prendere decisioni libere e consapevoli;
  2. deve avere una patologia irreversibile portatrice di gravi sofferenze fisiche o psichiche “che ella reputa intollerabili”;
  3. deve sopravvivere grazie a trattamenti di sostegno vitale;
  4. tali condizioni e le modalità di esecuzione devono essere verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale.

Il caso di Elena rientra dunque in questo quadro, salvo che per un particolare: la 69enne non era attaccata ad alcun macchinario e respirava autonomamente, seppur a fatica. Per questo motivo Cappato ha parlato di “una discriminazione insopportabile tra i malati che soffrono. Immaginare che da questo debba dipendere il diritto a evitare l’inferno, come Elena ha definito il suo orizzonte di vita se non se ne fosse andata prima, non è degno di un Paese civile“.

L’autodenuncia di Marco Cappato

Dopo aver esaudito la volontà di Elena, Marco Cappato si è recato nella caserma dei carabinieri di via Fosse Ardeatine, nei pressi del Duomo di Milano, per autodenunciarsi. Una scelta simbolica, visto che è lo stesso luogo in cui si era costituito nel febbraio 2017 per aver aiutato a morire in Svizzera un giovane uomo cieco e paralizzato dopo un incidente (qui abbiamo parlato invece del caso Mario, come è avvenuto il primo suicidio assistito in Italia).

“Se ce lo chiederanno, lo rifaremo con altre persone e tocca alla magistratura decidere se c’è il pericolo di reiterazione del reato”, ha affermato l’esponente dell’Associazione Coscioni accompagnato dall’avvocatessa Filomena Gallo. “Volevo essere preciso in modo che fosse chiaro che il mio è stato un aiuto indispensabile per Elena perché non avrebbe mai accettato di mettere a rischio il marito e la figlia”, ha precisato Cappato. “Alla 7 del mattino sono andato in auto nel suo paese in Veneto, ho citofonato, sono salito in casa e poi l’ho accompagnata in auto a Basilea dove l’ho aiutata a interpretare quello che chiedevano prima di procedere”.

Eutanasia e suicidio assistito: cosa dice la legge in Italia

Come spiega l’Associazione Luca Coscioni sul proprio sito, si comprendono nel termine “eutanasia” gli interventi medici che prevedono la somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente che ne fa richiesta e soddisfa determinati requisiti. Al momento tale pratica è illegale in Italia.

Grazie alla sentenza della Corte costituzionale sopra citata, in Italia è invece possibile richiedere il suicidio medicalmente assistito, ossia l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico.