Classe 1985, ex ginnasta e appassionata di danza e recitazione, Claudia Mancinelli ha costruito una carriera che attraversa sport, arte e spettacolo, fino al ritorno alla ginnastica ritmica, dove ha trovato la sua vera dimensione. Dalla palestra di Fabriano alla pedana olimpica, ha accompagnato atlete come Milena Baldassarri e Sofia Raffaeli, diventando un punto di riferimento nel panorama della ginnastica italiana. Oggi è responsabile del Centro di Attività Territoriale di Roma e ha dato vita a un progetto editoriale dedicato alle bambine che praticano questo sport, raccontando storie di sogni, sfide e successi.
Ospite della rubrica Ladies First, che celebra le donne che ispirano con le loro storie e la loro determinazione, Claudia racconta la sua filosofia, semplice ma potente: riconoscere e coltivare il talento nascosto, unire tecnica e mente, trasmettere fiducia e passione, aiutare ogni atleta a credere in sé stessa. “Allenare i più giovani significa credere nel potenziale che ancora non si vede. E se hai la pazienza di perseverare, arriva un giorno in cui l’impossibile diventa possibile.”
Claudia, la tua storia con la ginnastica comincia prestissimo, a soli quattro anni. Cosa ricordi di quel primo approccio in palestra e cosa ti ha fatto innamorare di questo sport?
A quel tempo Fabriano era una piccola società, come tante altre. La storia è stata scritta dopo. Allora non sapevo nulla, nemmeno di quale sport si trattasse, ma ricordo le mie amiche. Condividere una passione a quell’età, ma credo valga sempre, è una di quelle esperienze che rendono le giornate piene e ricche di gioia. Poi la magia dei nastri, delle palle e dei cerchi ha fatto il resto.
A 18 anni hai abbandonato la ginnastica per trasferirti a Roma, hai vissuto esperienze intense nella danza, nel teatro e persino nella televisione, anche con il Cirque du Soleil. Cosa ti hanno lasciato quegli anni nel mondo dello spettacolo e in che modo oggi influenzano il tuo modo di allenare?
Reputo i miei anni nell’arte uno dei tesori più importanti che ho nel cuore. Ho studiato molto: tanti tipi di danza, teatro, e ho avuto la fortuna di conoscere artisti di altissimo livello. Credo che il bagaglio di esperienze che mi hanno dato la danza e il teatro rappresenti una parte fondamentale dell’allenatrice che sono oggi.
Voglio però continuare ad approfondire, perché penso che senza spirito di ricerca la creatività si fermi. Il nostro sport ha una grande componente artistica, che io coltivo e ricerco quotidianamente. Terrò una masterclass in Portogallo proprio su questo tema: la mia sfida è sempre quella di sentire la mia creatività libera.
Credi che l’arte e la ginnastica abbiano qualcosa in comune nella capacità di esprimere emozioni e raccontare sé stessi attraverso il corpo?
Nel teatro come nella danza esistono linguaggi, variazioni, un testo da rispettare, all’interno dei quali si deve inserire e ricercare la propria espressione artistica. Nella ginnastica abbiamo un codice dei punteggi che richiede un’elevata capacità tecnica e, allo stesso tempo, il rispetto di regole artistiche precise. Ecco, trovare la mia piena libertà espressiva dentro quelle regole è ciò che mi appassiona di più.
Un giorno un bravissimo coreografo del Cirque du Soleil mi disse: “Tu hai il fil rouge, quel filo che lega l’artista sul palcoscenico al pubblico che lo guarda”. Ecco, io ricerco quel fil rouge nelle mie atlete. È insieme che si tesse questa trama. Poi ci sono la musica, il movimento, la storia da raccontare.
Nel nostro codice si parla di “idea guida”: se non c’è, io soffro. Faccio fatica a seguire composizioni tecniche fine a sé stesse. Serve la capacità della ginnasta, ma anche la forza dell’allenatore nella costruzione dell’esercizio. Ed è vero che, nella ginnastica, per arrivare a un’espressione artistica eccellente bisogna avere una forte base tecnica: altrimenti, per un’atleta, riuscire a esprimersi mentre compie evoluzioni così complesse con l’attrezzo diventa difficilissimo.
Parliamo del ritorno alla ginnastica: dopo dieci anni e quasi per caso, sei tornata in palestra a Fabriano. Cosa hai provato nel momento in cui hai sentito che “quella era casa tua”?
Ho iniziato ad allenare a Roma, ormai 15 anni fa. Ho fatto molta gavetta, lavorando in palestre piccole dove spesso neanche sapevano che venissi da uno dei club più forti d’Italia. Non mi importava: volevo imparare questo mestiere. Non sapevo se mi sarebbe piaciuto, ero abituata a stare sotto i riflettori, prima come atleta e poi come danzatrice. Il dietro le quinte non era ciò che sognavo, ma nella relazione con le mie atlete, nel cercare di realizzare i loro sogni, ho trovato la motivazione per andare avanti. E ora sono qui. E non me ne vado più.
Hai accompagnato atlete come Milena Baldassarri e Sofia Raffaeli fino alle Olimpiadi. Cosa si prova a vivere l’emozione della pedana olimpica?
La pedana olimpica per me è stata un’esperienza meravigliosa, un ricordo indelebile nella mia vita. Ma la cosa più magica è il ricordo del percorso che l’ha preceduta: i mesi di preparazione, l’unione di intenti tra tutti noi: me, le ragazze, la società, la federazione, la mia famiglia. Tutti insieme, concentrati su un unico obiettivo.
L’emozione delle gare è sempre grande. Ricordo con particolare intensità, e forse con più ansia, la prima volta che ho accompagnato le mie atlete a una gara regionale: non dormivo la notte, mi svegliavo con lo stomaco chiuso. La voglia di fare bene, la paura del giudizio, la pressione delle aspettative. Certo, in un contesto olimpico la responsabilità è enorme: rappresenti un’intera nazione. Ma, come ho letto recentemente nelle parole di Sinner, rappresentare una nazione è un privilegio. Le vere pressioni le vivono altri: chi teme una bomba, chi non sa se domani sarà ancora vivo. Quelle, sì, sono pressioni.

Da lì è nato un legame fortissimo con Sofia Raffaeli, culminato nel bronzo olimpico. Come si costruisce un’intesa così profonda tra allenatrice e atleta?
Dalla mia esperienza con Sofia ho capito che l’intesa tra allenatore e atleta nasce davvero quando si condivide un obiettivo preciso e, di conseguenza, un percorso comune. Soprattutto a livello olimpico o comunque ad alto livello, ci sono tantissime paure, ostacoli e momenti in cui sembra impossibile farcela. E invece si va avanti.
Le sfide, quando vengono affrontate insieme, creano un’unione profonda. Credo che questo valga in ogni ambito, ma nello sport, e in particolare in uno sport individuale come la ginnastica, il legame tra allenatore e atleta diventa qualcosa di ancora più forte e speciale.
Hai spesso detto che “allenare significa trovare la chiave per far sbocciare il potenziale di ogni ginnasta”. Qual è, secondo te, il segreto per riconoscere e far emergere quel talento nascosto?
Penso che il lavoro di noi allenatrici sia quello di saper vedere le capacità nascoste. Quelle visibili le notano tutti; quelle nascoste, invece, vanno cercate, scovate e poi nutrite. Dico spesso che un allenatore è un po’ un visionario del futuro.
Quando ero più giovane, mi arrabbiavo molto se le mie ginnaste non venivano selezionate o se ricevevano commenti che non condividevo sulle loro capacità. Oggi capisco che molti di quei giudizi erano anche giusti, ma io vedevo ciò che le mie atlete avrebbero potuto diventare, mentre gli altri vedevano solo ciò che erano in quel momento.
Allenare i più giovani significa credere nel potenziale che ancora non si vede. E se hai la pazienza di perseverare, arriva un giorno in cui l’impossibile diventa possibile. Mille tentativi senza riuscirci… e poi, all’improvviso, ce la fai. È quasi mistico. Le capacità sono così: emergono con i giusti e pazienti stimoli e il compito dell’allenatore è proprio questo: costruire e diventare lo stimolo giusto, con tanta pazienza.
Nel tuo approccio, la testa vale quanto il corpo. Come si allena la parte mentale e quanto conta la fiducia nel percorso di crescita di un’atleta?
Mi dicono spesso che in gara sembro molto seria, ma in realtà credo che sia la concentrazione a darmi quell’espressione. Sono convinta che ciò che vivo io arrivi anche alle ginnaste, quindi cerco di essere perfettamente allineata a loro, di trasmettere calma e presenza.
Una volta un’allenatrice molto esperta mi disse che il nostro lavoro finisce il giorno prima della gara: in pedana non puoi fare nulla, perché tutto è nelle mani della ginnasta. Per anni ho pensato che fosse vero. Poi, con Sofia in particolare, ho capito che non è sempre così: lei cercava il mio sguardo, la mia attenzione, anche nei momenti cruciali della gara. Da lì ho iniziato a rivedere il mio approccio alle gare.
Oggi credo che un allenatore possa fare la differenza, nel bene o nel male, in ogni istante. A volte basta una parola, detta nel momento giusto, per cambiare l’andamento di una gara. E sono convinta che un allenatore trasmetta alle proprie atlete la verità di ciò in cui crede davvero, non ciò che semplicemente spera di vedere.
Per questo è fondamentale costruire un tipo di allenamento che dia fiducia reciproca. Devo credere profondamente nella mia ginnasta, perché solo così anche lei potrà credere di più in se stessa. Non è facile: anche noi allenatori abbiamo le nostre paure. Ma siamo lì per questo, e anche noi dobbiamo tirare fuori nuove capacità per crescere e per aiutare più giovani possibile a fare lo stesso.
Hai pubblicato due libri che rappresentano un vero e proprio progetto educativo, in cui racconti la ginnastica come scuola di vita. In che modo, attraverso le storie delle protagoniste, trasmetti i valori in cui credi?
Sono molto fiera di queste pubblicazioni (I love gym -si comincia a volare e I love gym in pedana, ndr). A fine ottobre uscirà il terzo volume, una storia dedicata alle ragazze, in cui le protagoniste si trovano ad affrontare le dinamiche tipiche della palestra: dai sogni alle delusioni, dalla competizione tra loro fino alla realizzazione dei propri obiettivi. Spesso, grazie anche al supporto delle allenatrici, riescono a superare insieme le difficoltà che incontrano.
Mi piace molto raccontare alle tante bambine che praticano questo sport delle storie in cui potersi riconoscere, soprattutto attraverso un libro, che offre un’esperienza diversa rispetto al guardare i video sui social. Nel suo genere, è una pubblicazione unica per il nostro sport, e ringrazio di cuore Salani per avermi dato questa opportunità.
Ricevo messaggi da tutto il mondo, dalla Spagna alla Giamaica (dove ho scoperto, proprio grazie al libro, che hanno aperto la loro prima scuola di ginnastica), ma anche dal Brasile e da altri Paesi del Sud America, con richieste di traduzione in altre lingue. Spero davvero che questo sogno possa presto diventare realtà.
Oggi sei anche responsabile del Centro di Attività Territoriale di Roma, dove metti la tua esperienza al servizio dei nuovi talenti. Qual è la tua visione per le giovani ginnaste e cosa sogni di costruire in questo nuovo ruolo?
Rispetto al mio nuovo ruolo, sto ancora cercando di capire come riuscire a dare il massimo. Ogni giorno mi impegno per trasmettere a ciascuna atleta ciò di cui ha bisogno per migliorare, non solo dal punto di vista tecnico ma anche personale. Stiamo a vedere, è ancora presto: la costruzione richiede tempo, costanza e tanta pazienza.
Ti descrivono come tosta, perfezionista, “malata” di ginnastica ritmica: ti riconosci in queste definizioni?
Tosta e perfezionista, sì, assolutamente. Ma solo in certi ambiti, non in tutto. Chi mi conosce sa che dentro di me convivono anche zone di estremo caos. “Malata” di ginnastica, invece, posso dire serenamente di no, non mi ci riconosco. So distinguere un lavoro, seppur pieno di infinita passione, da ciò che nella vita è davvero importante, e per me sono le relazioni sincere: la mia famiglia e i miei amici.
La ginnastica è uno sport, per me il più bello del mondo, ma resta pur sempre uno sport. Bisogna conoscere e rispettare il limite, senza oltrepassarlo. Quando sento che quel limite si avvicina, mi fermo. Mi preservo.
Com’è Claudia Mancinelli, dentro e fuori la pedana? Cosa la emoziona, cosa la ispira e cosa la fa sentire pienamente se stessa?
Mi fa sentire pienamente me stessa la dedizione sincera a ciò che ho scelto di portare avanti. Quando do tutta me stessa e riesco a superare quel momento in cui penso di non farcela, è proprio quello sforzo a farmi sentire davvero viva. Anche se poi non realizzo tutto, ho fiducia nell’atto stesso del continuare a dedicarmi: non mi ha mai tradito. Perché alla fine, se abbatto il dubbio, arrivo sempre a realizzare qualcosa.
Mi emoziona proprio questo: abbattere il muro del dubbio e scoprire le infinite possibilità che si nascondono dietro.
L’ispirazione la trovo in tante cose: in una nota musicale, in un ricordo, in un profumo. Ma soprattutto nelle atlete che hanno voglia di migliorare. È bellissimo vedere nei giovani il desiderio di mettersi in gioco, di lottare per vincere e per superarsi. Quella energia mi ispira ogni giorno. È uno scambio reciproco.
