Alzheimer, diagnosi precoce: una spia l’annuncia 15 anni prima

Un nuovo studio potrebbe consentire a migliaia di persone di lottare contro l'Alzheimer prima del suo sviluppo evidente

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Luca Incoronato

Giornalista

Giornalista pubblicista e copywriter, ha accumulato esperienze in TV, redazioni giornalistiche fisiche e online, così come in TV, come autore, giornalista e copywriter. È esperto in materie economiche.

La ricerca sull’Alzheimer continua a fare passi in avanti e ogni minimo segnale fa notizia. Ciò perché si tratta di una condizione medica che riusciamo a fronteggiare in maniera molto limitata. Soltanto lo studio è in grado di fornirci gli strumenti necessari per agire, preferibilmente in maniera preventiva.

Ecco che all’orizzonte sorge una nuova speranza. Non si tratta di una soluzione e non viene proposta come tale. È bene essere chiari e non generare false illusioni. Si tratta però di uno step potenzialmente molto importante, essendo stata individuata una sorta di “spia” nel nostro organismo, in grado di anticipare gli effetti evidenti della malattia di 15 anni.

Un campanello d’allarme

Una nuova ricerca ha posto in evidenza una connessione tra un quantitativo più elevato della media di grasso viscerale nell’addome, in mezza età, e lo sviluppo dell’Alzheimer. Un lavoro presentato all’incontro annuale della Radiological Society of North America.

La presenza di questo grasso nascosto sarebbe direttamente correlata a mutamenti nel cervello. Un vero e proprio campanello d’allarme dall’enorme importanza, considerando come si manifesti fino a un massimo di 15 anni prima dei primi sintomi di perdita di memoria.

Ciò non vuol di certo dire che tutti i soggetti con maggior grasso viscerale nell’addome, una volta raggiunta la mezza età, siano predisposti geneticamente per lo sviluppo di tale malattia. Statisticamente parlando, si tratterebbe di una donna su cinque e un uomo su dieci.

Ecco le parole dell’autrice di questa ricerca, Mahsa Dolatshahi, ricercatrice del Mallinckrodt Institute of Radiology (Mir) alla Washington University School of Medicine di St. Louis: “Altri studi hanno collegato l’indice di massa corporea all’atrofia cerebrale o un rischio maggiore di demenza. Nessun ha però posto in connessione un tipo specifico di grasso alla proteina dell’Azlheimer, in persone cognitivamente normali”.

I dati dello studio

Come detto, non si tratta di una rivoluzione o di una pillola miracolosa in grado di restituire le capacità cognitive di un soggetto. Si tratta però di un fondamentale campanello d’allarme, che potrebbe consentire con anni di anticipo di lavorare per migliorare le proprie condizioni future.

In totale sono stati analizzati i dati di 54 partecipanti, tutti ritenuti sani sul fronte cognitivo. La loro età compresa tra 40 e 60 anni, con un Bmi medio, ovvero un indice di massa corporea, di 32.

Svariati i test effettuati, dalle misurazioni di glucosio e insulina alla tolleranza al glucosio. Al tempo stesso il volume del grasso sottocutaneo e viscerale. È stata adoperata la Pet per esaminare eventuali elementi patologici di una sezione dei partecipanti, ovvero 32 dei 54 totali. Il tutto concentrandosi su placche amiloidi e grovigli tau, che sono indicatori della malattia.

È così risultato evidente che un rapporto più elevato di grasso viscerale e sottocutaneo, è interconnesso con un maggior assorbimento del tracciante Pet di amiloide nella corteccia del precuneo.

“Differenti i percorsi che svolgono un ruolo in questi casi. Abbiamo le secrezioni infiammatorie del grasso viscerale che, in contrapposizione agli effetti protettivi del grasso sottocutaneo, contribuiscono all’infiammazione nel cervello. Quello che è tra i principali meccanismi che contribuisce allo sviluppo della malattia dell’Alzheimer”.