A quasi sette mesi dal tragico 7 ottobre, la sostanza del conflitto in Medio Oriente fatica a cambiare. L’accordo su una possibile tregua tra Israele e Hamas riguarda gli ostaggi, ma è ostaggio a sua volta. Da una parte i fondamentalisti della Striscia agitano la minaccia per le vite degli israeliani nelle loro mani, dall’altra lo Stato ebraico porta avanti una strage di civili abominevole e agita l’opposta minaccia di sferrare un’offensiva decisiva su Rafah.
Dopo l’ultimo video diffuso da Hamas in cui compaiono due prigionieri, i parenti degli ostaggi e i manifestanti aumentano la pressione sul governo Netanyahu. Contemporaneamente i mediatori, in primis gli Stati Uniti, spingono entrambe le parti ad accettare l’ultima bozza di accordo e sottolineano la “generosità” della proposta israeliana. E cioè una lunga tregua dei combattimenti, fino a 40 giorni, in cambio del rilascio di una parte di persone sequestrate.
Israele: senza l’accordo, scatterà l’operazione su Rafah
Se non sarà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco con Hamas, “nei prossimi giorni” Israele lancerà l’offensiva a Rafah. Il capo di Stato Maggiore delle forze di Difesa ebraiche, il generale Herzi Halevi, ha approvato i piani finali per un’azione militare nel sud di Gaza. Nonostante i rischi derivanti da un’operazione del genere, i carri armati di Tel Aviv sono stati schierati al confine della Striscia e sarebbero pronti a ricevere il via libera per iniziare la controversa offensiva sulla città. L’offensiva è considerata dallo Stato ebraico come l’ultima spinta necessaria per sradicare le forze combattenti islamiste nell’enclave palestinese, nonostante gli avvertimenti di un disastro umanitario se i civili non saranno allontanati in tempo dall’area dello scontro.
I piani tattici per entrare nel vivo dei combattimenti sarebbero stati completati negli ultimi giorni e prevedono un’invasione graduale che potrebbe essere fermata o ritardata in caso di progressi nei colloqui sugli ostaggi. Secondo gli analisti militari, entro 48-72 ore potrebbe esserci il via all’operazione, a meno che non si raggiunga un accordo tra le parti. Un funzionario diplomatico ampiamente citato dai media in lingua ebraica, tra cui il Times of Israel, riferisce poi che Israele ha deciso che non invierà ancora una delegazione al Cairo per i colloqui sulla tregua. “Aspetteremo la risposta di Hamas mercoledì sera e poi decideremo”, dichiara il funzionario anonimo. Cambio di programma dunque, visto che una delegazione di Tel Aviv sarebbe dovuta recarsi in Egitto martedì, e tutto rinviato. Dal canto loro, i funzionari dei fondamentalisti hanno lasciato Il Cairo annunciando che torneranno con una risposta scritta alla proposta israeliana di cessate il fuoco.
Cosa prevede l’ultima bozza di accordo tra Israele e Hamas
Il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, dichiara che ai fondamentalisti sono stati offerti “40 giorni di cessate il fuoco e il possibile rilascio di migliaia di detenuti palestinesi, in cambio della liberazione degli ostaggi”. Una proposta definita “molto generosa” da parte di Usa e Regno Unito. E una proposta che, secondo una fonte diplomatica francese, ha registrato una convergenza sul numero di israeliani da rilasciare in cambio dei palestinesi detenuti, anche se “permangono ostacoli sulla natura a lungo termine della tregua“. Tradotto: accordo vicino, ma lontano. Niente di nuovo: non è affatto la prima volta – per usare un eufemismo – che si annunciasse l’imminenza di un’intesa che poi sarebbe inevitabilmente saltata.
L’impianto dell’accordo è il risultato delle richieste americane a Israele di rinunciare all’offensiva su Rafah, in un estenuante tentativo di convincere il sempre più intransigente governo Netanyahu. Oltre alla lunga pausa nei combattimenti, la bozza prevede il rilascio in una prima fase di 33 persone tra donne, minori, anziani e malati: il numero comprende i soggetti ancora in vita in queste categorie. All’inizio gli israeliani ne chiedevano 40. Poi sarebbe toccato ai soldati e agli uomini sotto ai 50 anni, stabilendo secondo la Cnn un “preludio alla fine della guerra”. Per contro, Benjamin Netanyahu continua a escludere del tutto lo stop definitivo all’operazione militare, spinto dall’ala estremista del suo governo che vuole esplicitamente far naufragare ogni intesa. Le posizioni delle parti, insomma, non sembrano lasciare spazio a trattative diverse.
Geopolitica della guerra in Medio Oriente: cosa rappresentano davvero gli ostaggi
Al di là della vetrina diplomatica, esistono dunque condizioni alle quali nessuna delle due parti è disposta a rinunciare. Come abbiamo già avuto modo di notare, ufficialmente Hamas si è detto “aperto a discutere qualsiasi iniziativa o idea seria e pratica, a condizione che conduca a una cessazione completa dell’aggressione e garantisca il processo di accoglienza per il nostro popolo, la ricostruzione, la revoca dell’assedio e la realizzazione di un serio processo di scambio di prigionieri”. Tradotto: Israele dovrà rinunciare alla gestione di Gaza e di qualsiasi territorio rivendicato dai palestinesi, accettando di mantenere la pace.
La posizione di Hamas è condivisa anche dal Jihad Islamico (in Italia inspiegabilmente declinata al femminile come Jihad Islamica), al quale sono stati affidati diversi ostaggi precedentemente nelle mani dei “colleghi” filo-iraniani. Il capo Ziad Nahaleh ha chiarito incontrovertibilmente che la sua fazione non accetterà intese che prevedano, ancora una volta, scenari diversi da un “cessate il fuoco globale” e il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia. D’altronde l’obiettivo tattico dell’Iran, sostenitore dei due gruppi fondamentalisti, è stato ampiamente centrato: colpire Israele militarmente e nel suo status di grande potenza del Medio Oriente, dimostrandone la debolezza ai Paesi arabi che hanno firmato e stavano firmando gli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti diplomatici e istituzionali con Tel Aviv.
Contestualmente, la crisi degli ostaggi rivela la natura della contesa geopolitica che vede contrapposti Usa e Iran, con quest’ultimo che aggira la mediazione occidentale e qatarina rivolgendosi direttamente a Russia e Cina. Dimostrando, dunque, che la soluzione diplomatica prescinde dalla volontà e dalle azioni di Washington. Come nel caso dei due ostaggi di nazionalità russa liberati da Hamas con tanto di negoziati diretti (senza passare dall’onnipresente Qatar) e di omaggio a Vladimir Putin. Allo stesso modo è stato gestito anche il rilascio di altri ostaggi, stavolta per volontà diretta dell’Iran, che finanzia i fondamentalisti della Striscia da anni. Parliamo dei thailandesi liberati dalle prigioni di Gaza, scelti con acuto calcolo in quanto cittadini di un Paese con cui Teheran intende lavorare nell’Indo-Pacifico, sempre in funzione anti-americana.