La Nato ha un piano preciso per l’Ucraina: cosa prevede

Il Kyiv Security Compact prevede una capacità di difesa autonoma, con tanto di esercito potenziato, da parte di Kiev. Ma cosa dice davvero il diritto internazionale?

Pubblicato: 11 Febbraio 2023 09:30

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Prima del tour europeo di Volodymyr Zelensky e prima ancora del suo viaggio negli Stati Uniti, entrambi programmati allo scopo di indicare la via politica (occidentale e atlantica, se non si fosse intuita) dell’Ucraina dopo la guerra, la Nato aveva già redatto un piano preciso per il Paese invaso dalla Russia quasi un anno fa.

Si tratta del Kyiv Security Compact, presentato di recente dall’ex segretario generale dell’Alleanza Anders Fogh Rasmussen e dal capo di gabinetto della presidenza ucraina, Andriy Yermak, dinanzi alla Commissione per gli Affari esteri e la Difesa del Parlamento europeo.

Il piano della Nato: cosa prevede il Kyiv Security Compact

L’intero programma della Nato, ossia del braccio armato degli Usa in territorio europeo, può essere riassunto in un obiettivo principale: rendere l’Ucraina capace di difendersi e sconfiggere militarmente la Russia in maniera autonoma. Il piano era stato definito mesi prima e svelato una prima volta a Washington nell’ottobre 2022 dallo stesso Rasmussen, il quale ha definito il patto sostanzialmente come una “codificazione formale” del sostegno occidentale fino ampiamente dimostrato alla resistenza ucraina.

Il Kyiv Security Compact mira a stabilire una serie di garanzie di sicurezza legalmente vincolanti per Kiev da parte della coalizione di Paesi occidentali, allo scopo di “rafforzare la capacità ucraina di respingere gli attacchi russi attraverso un’ampia formazione congiunta”. La strategia prevede, in prima istanza, la fornitura di “sistemi avanzati di armi con scopo difensivo e il sostegno allo sviluppo industriale dell’Ucraina nell’ambito della Difesa”.

Questa “forza difensiva significativa” dovrà (?) essere in grado di respingere le “forze armate e paramilitari della Federazione Russa”. L’Ucraina dovrà dunque costruire un esercito pienamente in grado di respingere un’importante invasione di terra, attraverso un “massiccio programma di addestramento e manovre congiunte”, sistemi difensivi avanzati, principalmente antiaerei, un “accesso diretto” ai finanziamenti Ue per lo sviluppo delle capacità (adesione in vista? Ne avevamo parlato qui) e una forza di difesa territoriale efficace e organizzata per tutti i civili dai 18 anni in su.

Tra passato e futuro

L’iniziativa dei vertici atlantici si inserisce nell’interpretazione occidentale, o statunitense che dir si voglia, della guerra in Ucraina. E l’interpretazione occidentale vede una delle cause principali del conflitto odierno in due documenti firmati da invaso e invasore nel 1994, sotto lo sguardo garante di Washington e Londra. Il primo è il Trattato di non proliferazione sottoscritto dall’Ucraina, la quale dopo il crollo dell’Unione Sovietica consegnò le numerose testate nucleari ancora presenti sul suo territorio alla Russia. Quest’ultima, firmando nello stesso anno il celebre Memorandum di Budapest, si impegnò invece a non attaccare il Paese confinante, divenuto una Repubblica indipendente nel 1991. Uno scambio di favori, in piena regola e con tutti i crismi.

Quelle di Mosca era però poco più che rassicurazioni riguardo sicurezza, indipendenza e integrità territoriale dell’Ucraina. Come lo erano le garanzie statunitensi pronunciate dopo la Guerra Fredda sull’evitare un allargamento della Nato a Est, allungando cioè le mani su quei territori cuscinetto che Mosca percepisce come irrinunciabili, primi fra tutti l’Ucraina. Quasi per “ripicca”, direbbero i gossippari della geopolitica, la Russia non ha tardato a disattendere le sua promesse: esattamente dieci anni dopo, con un bizzoso gusto per le ricorrenze, la Russia invade la Crimea e la annette unilateralmente alla propria Federazione.

Che i gentleman agreement in politica estera non rappresentino una garanzia indubitabile, come già nel Settecento dimostrò il pragmatico cinismo di Federico il Grande di Prussia, lo sanno bene anche nel blocco atlantico. Anche Yermak e Rasmussen concordano sul fatto che il Memorandum di Budapest rappresenti un documento “privo di valore”. Sostengono che le nuove garanzie di sicurezza internazionale su cui l’Ucraina possa fare affidamento non risiedono in promesse o trattati, quanto piuttosto nel sostegno internazionale a lungo termine per l’esercito e lo Stato. Proprio su questo punto vuole inserirsi la Nato come “garante appaltatore”, in modo che l’esercito di Kiev possa credibilmente sconfiggere i russi da solo (col patrocinio preventivo dell’Occidente).

Il modello Usa-Israele

Fermo restando il piano, come si potrà inquadrare istituzionalmente tutta questa operazione? Rasmussen ha preso a modello il patto di cooperazione in materia di sicurezza sottoscritto da Stati Uniti e Israele: due Paesi che si considerano stretti alleati militari e politici con importanti accordi di cooperazione bilaterale in materia di difesa, ma che non hanno mai messo nulla nero su bianco. E si vedono bene dal farlo.

Come chiarito dallo stesso segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, l’obiettivo primario del piano elaborato da Rasmussen e Yermak è, in definitiva, fare in modo che la Russia non sia mai più nelle condizioni di mettere a rischio la sovranità ucraina. Il Kyiv Security Compact, ha spiegato, “si basa su un assioma molto chiaro: la difesa della sovranità dipende dalle sue capacità di difendersi e questo piano mira ad aiutare l’Ucraina ad avere un esercito capace di sconfiggere i russi sul campo di battaglia”.

Il (mancato) rispetto del diritto internazionale

E ora una domanda provocatoria: tutto questo avviene nel rispetto del diritto internazionale? Conosciamo benissimo la risposta per quanto riguarda la criminale invasione russa del territorio di uno Stato sovrano, giustificato dalla sindrome dell’accerchiamento (che i tedeschi, per citare un popolo europeo e “occidentale”, conoscono molto bene), dal pericolo di “nazificazione” dello spazio russo e da secolari rivendicazioni territoriali.

Andando a vedere neanche troppo bene, quello che emerge scorrendo gli highlights del Novecento è che le grandi potenze violano costantemente il diritto internazionale, divenuto una specie di spauracchio salva-nascondino da agitare con valenze più ideologiche che effettivamente giuridiche. L’ordine internazionale statocentrico emerso dalla Pace di Vestfalia si è dimostrato non più in grado di gestire la condotta geopolitica di nazioni e gruppi, che cominciano a fare il calcolo (e il callo) su eventuali sanzioni e risoluzioni (non vincolanti) dell’Onu. Concludendo che, sì, in fondo violare il diritto internazionale non comporta poi questa gran punizione.

Anche perché sono gli stessi Stati Uniti i primi trasgressori, se osserviamo gli eventi dal punto di vista tecnico e non ideologico. Per esempio quando Washington diede il suo totale beneplacito a Israele quando quest’ultimo ha annesso illegalmente le alture del Golan siriano e la Grande Gerusalemme. Donald Trump ha anche autorizzato l’annessione illegale del Sahara occidentale al Marocco.

Come ha notato Noam Chomsky, in base al diritto internazionale, è responsabilità del Consiglio di Sicurezza dell’Onu mantenere la pace e, se necessario, autorizzare l’uso della forza. L’aggressione da parte di una superpotenza non arriva neanche al Consiglio di Sicurezza: le guerra statunitensi in Indocina, l’invasione anglo-americana dell’Iraq o l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin non sono altro che esempi di “crimini internazionali”. Che portarono i nazisti a essere impiccati a Norimberga. Per dire.