Israele, perché Netanyahu ora vuole la tregua con Hezbollah in Libano e cosa c’è dietro

L'obiettivo strategico di Israele resta impedire l'ascesa nucleare dell'Iran e spezzare il rifornimento dei suoi satelliti mediorientali. Gli scopi tattici diventano stemperare i troppi fronti aperti e colpire anche Hamas. E la Siria. Cosa prevede davvero l'accordo di cessate il fuoco e perché risulterà fragile come gli altri.

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 26 Novembre 2024 22:36

Lo avevamo detto e ripetuto: Israele avrebbe fatto passi avanti verso la tregua su almeno un fronte aperto in Medio Oriente per tirare il fiato, ma nel frattempo avrebbe martellato di bombe i suoi nemici confinanti. Mentre i raid dello Stato ebraico hanno preso di mira centinaia di bersagli di Hezbollah nel giro di pochissime ore, Benjamin Netanyahu ha prima annunciato e poi firmato il cessate il fuoco in Libano.

La vera domanda è: perché proprio ora? Giocando sul fatto che nessuno avrebbe potuto andare contro anche questa iniziativa, il premier israeliano ha in realtà aggiunto un ulteriore fattore di instabilità alla regione. Hamas e Hezbollah ora dovranno tenere fede alla propaganda secondo cui sono loro gli unici a volere davvero la pace. Nel mirino di Tel Aviv restano però ben visibili, e la mano rimane salda sul grilletto. Impossibile il contrario.

Cosa prevede (davvero) la tregua tra Israele e Hezbollah

In serata il Gabinetto di Sicurezza israeliano ha votato a favore di un accordo di cessate il fuoco per porre fine ai combattimenti con Hezbollah in Libano. La proposta mira a raggiungere uno stop delle ostilità di 60 giorni con il “Partito di dio”, che nelle fantasie diplomatiche occidentali potrebbe costituire la base di una tregua duratura. In realtà la tregua benedetta da Tel Aviv è stata avvallata per ritrovare la forza sufficiente ad attaccare con rinnovata forza gli agenti di prossimità dell’Iran, il cui contenimento violento è diventato opprimente per uno Stato ebraico alle prese anche con pesanti rivolgimenti interni. Anche il primo ministro libanese Najib Mikati ha chiesto che il cessate il fuoco venga “messo in atto immediatamente”. La proposta è stata presentata dall’inviato americano Amos Hochstein, che la scorsa settimana ha trascorso tre giorni a Beirut per discuterne anche con la controparte libanese. Secondo fonti legate al dossier, l’intesa prevede:

  • il ritiro di Hezbollah dalla zona a sud del fiume Litani;
  • il dispiegamento di 15mila soldati dell’esercito libanese insieme alle truppe Unifil nell’area tra il fiume Litani e il confine israeliano;
  • la creazione di una zona libera da miliziani e armi non autorizzate;
  • il divieto di vendere o fornire armi ed equipaggiamento militare al Libano, ad eccezione di quelli approvati dal governo (e, di riflesso, dagli Stati Uniti).

Oltre a queste condizioni fondamentali, che avevano lo scopo di prevenire attriti diretti e immediati tra Israele e Hezbollah, la risoluzione 1701 dell’Onu includeva altre condizioni. La più importante di queste è lo scioglimento di tutte le milizie, incluso dunque anche il Partito di dio – come stabilito nella risoluzione 1559 del 2004 e che è diventata parte integrante della risoluzione 1701. Si può tuttavia supporre che il disarmo di Hezbollah in tutto il Libano, e non solo la sua rimozione dal sud del Paese, rimarrà solo un auspicio, anche se fosse incluso nell’accordo finale. Il debole esercito libanese deve ancora reclutare l’intero numero di soldati richiesti per svolgere le sue missioni ai sensi della risoluzione 1701 e non ha ricevuto l’equipaggiamento, le armi, i veicoli blindati o la maggior parte del budget necessari per sostenere il suo nuovo spiegamento lungo il confine israeliano. Per questo motivo non solo è incapace di affrontare la forza militare di Hezbollah, ma qualsiasi tentativo di disarmare il gruppo porterebbe probabilmente a violenti scontri, rischiando una nuova catastrofica guerra civile in Libano.

Secondo il testo dell’accordo, tuttavia, le Forze armate libanesi riprenderanno il controllo sul loro territorio. Secondo l’amministrazione Biden, nei prossimi 60 giorni Israele ritirerà le sue forze e la popolazione civile lungo il confine potrà tornare alle proprie case. Il presidente statunitense ha assicurato che l’intesa rappresenta “un nuovo inizio” per il Libano, che “riacquisterà la sua sovranità”. E che nel Sud del “Paese dei cedri” non saranno dispiegate truppe americane. Il che suona più come una condanna che una garanzia, lasciando potenzialmente campo libero a operazioni e colpi di testa israeliani. Il fatto che venga specificato con forza che lo Stato ebraico “conserverà il suo diritto all’autodifesa” è una chiara avvisaglia. “Voglio essere chiaro: se Hezbollah o chiunque altro violerà i termini dell’accordo, rappresentando una minaccia diretta per Israele, il Paese avrà il diritto di difendersi, in linea con le norme internazionali”, ha dichiarato Biden.

Perché anche questo cessate il fuoco è destinato a fallire

Lo abbiamo detto: Israele vuole solo prendere tempo e non fare la pace. I suoi obiettivi strategici e la sua stessa fondazione prevedono la guerra continua alla minaccia iraniana. Ci sono poi altri indizi sulla volatilità dell’ennesimo cessate il fuoco in una regione martoriata da oltre cent’anni. Ufficialmente l’accordo in esame è stipulato tra due Stati: Libano e Israele. E qui emerge il primo inghippo che porterà anche questa fragile tregua a dissolversi sotto il fuoco delle bombe. Il reale scopo dell’intesa è infatti definire le regole del gioco non tra Libano e Israele, ma tra Israele e Hezbollah, cioè un’entità substatale di fatto parallela al governo legittimo del Paese. L’esecutivo libanese dovrà garantire che la minaccia sciita venga neutralizzata. In altre parole: dopo la crisi anche con forze multilaterali come Onu e Unifil, gli Usa e Israele hanno tirato dentro la mischia anche il Libano “libero”, il cui esercito ha costituzionalmente l’obbligo di salvaguardare la pace a ogni costo (e, dunque, non può sottrarsi a un’intesa del genere).

Senza la partecipazione di Hezbollah e la sua volontà di aderire alle disposizioni dell’accordo, ogni patto sarà completamente privo di significato. Attraverso l’intesa appena approvata, inoltre, Hezbollah non verrà disarmato. Le sue armi, le sue migliaia di missili a lungo e corto raggio, il suo arsenale di droni, la sua avanzata tecnologia balistica e tutte le altre sue infrastrutture militari continueranno a esistere. Se l’accordo verrà pienamente implementato, l’organizzazione sciita si allontanerà ulteriormente dallo Stato ebraico, a nord del fiume Litani. Ma non scomparirà. L’intesa prevede anche il ritiro delle forze israeliane, ma non è chiaro se immediatamente dopo la firma dell’accordo o dopo un periodo di 60 giorni. Da un punto di vista giuridico, il governo libanese insiste affinché questa “intesa” non venga definita come un nuovo accordo tra i due Paesi, ma come una serie di decisioni e intese che garantiranno l’attuazione della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Vale a dire il documento che ha posto fine nell’agosto 2006 a 33 giorni di guerra tra Israele e Hezbollah.

“Ciò significa – si legge su Haaretz – che i principi su cui si fonda l’accordo sono sostanzialmente identici a quelli della risoluzione 1701. La ragione di ciò è che, secondo la Costituzione del Libano, qualsiasi nuovo accordo internazionale deve essere approvato dal Parlamento libanese, di cui Hezbollah fa parte. Il termine “intesa” aggira questo ostacolo perché è interpretato in Libano come una continuazione o un’espansione della risoluzione 1701, approvata da Hezbollah nel 2006. Di conseguenza, non richiede nuove procedure legali che potrebbero coinvolgerlo nel campo minato politico del Libano.

Mentre tratta la tregua, Israele intensifica i raid in Libano

Nelle ore antecedenti alla riunione del Gabinetto di Sicurezza israeliano dedicata all’accordo per il cessate il fuoco, in Libano si è verificata una nuova escalation militare. Le Forze di difesa di Israele (Idf) hanno riferito di aver colpito oltre 180 obiettivi di Hezbollah in una manciata di ore, inclusi centri di comando, depositi di armi e altre infrastrutture nel sud del Paese, nella zona di Beirut e nella Valle della Beqa’. Secondo l’esercito, sette edifici presi di mira erano utilizzati da Hezbollah per la gestione e lo stoccaggio di fondi, tra cui il quartier generale, i caveau e le filiali dell’associazione Al Qard al Hasan, utilizzata dal gruppo libanese come una banca. Le restanti postazioni comprendono un centro delle forze aeree di Hezbollah, una sala di comando della divisione di intelligence, depositi di armi e altre infrastrutture militari.

La Divisione 91 dell’esercito israeliano ha raggiunto il fiume Litani, nel settore orientale del Libano meridionale, nonché l’area di Wadi Saluki, a circa 10 chilometri dal confine con lo Stato ebraico. I militari hanno individuato decine di armi e siti di Hezbollah in entrambe le aree. È la prima volta dal 2000, anno in cui Israele si ritirò dal Libano meridionale, che le truppe delle Idf raggiungono il fiume Litani. Quest’ultimo rappresenta la linea entro cui il Partito di dio avrebbe dovuto ritirarsi, sulla base della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite risalente al 2006. Da parte sua, Hezbollah non è rimasto a guardare e ha lanciato diverse decine di razzi e droni verso il nord dell’ingombrante vicino.

Israele afferma che Hezbollah è stato “riportato indietro di decenni” nella sua capacità d’offesa e risposta militare. La tregua prevede l’assenza di ogni tipo di attacco o provocazione da parte del partito-milizia sciita. Il che vuol dire, in pratica, che Netanyahu potrà usare o addirittura “fabbricare” ogni tipo di pretesto per riprendere l’azione bellica a pieno regime contro il nemico filo-iraniano. Nell’intesa promossa dagli Usa viene infatti precisato che Tel Aviv può rispondere con forza a qualsiasi violazione da parte di Hezbollah, mantenendo “totale libertà di azione militare”. Quest’ultimo messaggio è rivolto proprio a Washington, impegnata nel passaggio di testimone presidenziale fra Joe Biden, che non può di fatto più intraprendere programmi a medio-lungo termine, e Donald Trump, il cui sostegno a Israele appare incrollabile sotto ogni punto di vista. In ferma e ostinata contrapposizione all’Iran e alla rete di cooperazione realizzata con Russia e Cina, in contraria ottica anti-americana.

I veri obiettivi di Israele e Netanyahu

La priorità di Israele e del suo patron geopolitico, gli Stati Uniti, è impedire che nel caso generale l’Iran riesca a ottenere la bomba atomica raggiungendo un livello di arricchimento dell’uranio sufficiente (è necessario salire al 90% dall’attuale 60%). Questo è l’obiettivo strategico, il grande mantra – per intenderci – dello Stato ebraico. È il motivo per cui gli Usa lo sostengono da sempre e sempre lo sosterranno, al di là degli appelli alla pace e della propaganda su diritti e aiuti umanitari. È il motivo per cui Washington, proprio su iniziativa retorica di Trump, promosse gli Accordi di Abramo: spingere per il riavvicinamento e la normalizzazione diplomatica ed economica tra Israele e monarchie arabe, con l’intento di strapparle all’influenza e alla minaccia dell’Iran. Che però prosegue su una strada opposta, soprattutto con l’Arabia Saudita, agitando i sogni degli strateghi americani.

Ci sono poi obiettivi tattici, contingenti, legati al momento. A dichiararli è stato lo stesso Netanyahu. Nel discorso serale alla nazione, il primo ministro israeliano ha detto che se Hezbollah “viola l’accordo e tenta di armarsi, noi colpiremo. Se tenterà di ricostruire infrastrutture terroristiche vicino al confine, colpiremo. Se lancerà razzi, se scaverà tunnel, se porterà un camion con missili, colpiremo”. Perché fare una tregua adesso? A rispondere alla domanda più spontanea di tutto è Netanyahu stesso, citando tre motivi:

  • concentrarsi sulla minaccia iraniana;
  • rinnovare le forze e ricalibrare la catena dei rifornimenti;
  • separare i fronti e isolare Hamas.

La retorica del premier veicola anche una posticcia ammissione di debolezza: “Ci sono stati grossi ritardi nella fornitura di armi e munizioni”. Tutto fumoso, ma tutto funzionale alla causa di un Paese che vuole controllare l’intera fascia di territorio che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano.

Nel mirino l’approvvigionamento iraniano che passa dalla Siria

C’è un altro grande obiettivo che Israele non può più permettersi di perseguire come gli altri: la catena di approvvigionamento e rifornimento dei suoi proxy che l’Iran ha costruito in un decennio attraverso Iraq e Siria. E che giunge direttamente a due passi dallo Stato ebraico, sostenendo la guerra locale di Hamas e Hezbollah. In particolare l’arteria alimentatrice che passa dalla Siria è nel mirino dello Stato ebraico, che ha intensificato i bombardamenti in punti nevralgici.

I razzi e i droni israeliani hanno distrutto diversi ponti nella regione di Qusseir, vicino al confine libanese, viatico primario degli invii di aiuti da parte di Teheran. Sulla carta Israele tenta sempre maldestramente di dare una qualche giustificazione morale alle sue operazioni. In questo caso la retorica prevede che gli attacchi aerei lanciati al confine tra Siria e Libano fossero un “atto superiore” per spezzare le rotte utilizzate da Hezbollah per contrabbandare armi iraniane.

Verso una tregua anche a Gaza?

Intanto Biden ha già annunciato che, dopo l’accordo sul Libano, nei prossimi giorni gli Stati Uniti “lanceranno una nuova iniziativa insieme a Turchia, Egitto, Qatar, Israele e altri Paesi per raggiungere il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas”. Ormai siamo abituati a questa vuota retorica, consci che l’esplosivo mosaico del Medio Oriente non può purtroppo essere disinnescato da intese e trattati che escludono parti coinvolte come i partiti-milizia, bollati come “terroristi” dall’Occidente ma di fatto in capo al governo di ampi territori della regione.

Secondo Biden, però, la tregua raggiunta (?) in Libano “ci avvicina alla realizzazione di un’agenda permanente che ho spinto per la regione durante tutta la mia presidenza, una visione per il futuro del Medio Oriente”. Per la serie: io ho fatto la mia parte, poi toccherà a Trump. E al nuovo mondo che ci aspetta.