Israele, cessate il fuoco col Libano come regalo a Trump: ma il vero piano è un altro

Gli Usa, impegnati nel cambio di presidenza, vogliono stemperare le tensioni in Medio Oriente. Senza mai mollare il grande protetto Israele, ma aprendo a una tregua temporanea con Hezbollah

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 15 Novembre 2024 00:33

Mancano meno di due mesi all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Un periodo tutto sommato breve, che alleati e avversari degli Stati Uniti vogliono utilizzare appieno per avvantaggiarsi prima del cambio al vertice politico dell’egemone globale. Israele non fa eccezione.

Il presidente americano eletto ha già fatto sapere al premier israeliano Benjamin Netanyahu che, una volta nominato ufficialmente, dovrà mantenere l’assurda e retorica promessa di “mettere fine a tutte le guerre”. Una volta nominato però, non prima. Ed è tutto qui il risvolto macabro dell’intesa Trump-Netanyahu. Ed è tutto qui il vero senso del celebrato “regalo” a Trump che il governo israeliano vuole mettere sul tavolo: un cessate il fuoco in Libano.

L’accordo (impossibile) per una tregua tra Israele e Hezbollah in Libano

Cominciamo dalle cose importanti e spieghiamo subito perché un accordo che cessi le ostilità in Libano è di fatto impossibile. In pochissime parole: perché Israele vuole un pezzo di Libano. Il progetto imperialistico della destra del governo Netanyahu vuole un grande Israele “dal fiume al mare”, cioè il controllo dell’intero territorio tra la Valle del Giordano e il Mediterraneo. Per lo stesso motivo è vuota e retorica qualunque promessa o intenzione di tregua a Gaza e in Cisgiordania. Non si scappa.

Negli ultimi mesi gli Usa hanno fatto sempre più fatica a contenere l’intransigenza dello Stato ebraico, arrivando anche a minacciare di ridurre il vitale supporto militare se gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza non fossero aumentati nel giro di 30 giorni. Era metà ottobre ormai, quando questo messaggio giunse sulla scrivania di Netanyahu con tanto di firme del Segretario di Stato Antony Blinken e dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin. Il risultato? Washington ha continuato a inviare soldi e armi a Israele, arrivando all’importo record di 22,76 miliardi di dollari dal 7 ottobre 2023 al 30 settembre 2024. Di cui: 17,9 miliardi per materiale bellico e 4,86 miliardi per lo svolgimento delle operazioni militari. Per dare un’idea dell’incrollabile sostegno americano a Israele, si sappia che dal 1959 a oggi gli Usa hanno fornito aiuti e risorse per oltre 250 miliardi di dollari.

Nel frattempo Hezbollah e Idf israeliane proseguono a spararsi addosso. Dopo l’invasione di parte del Libano da parte ebraica, i miliziani del “Partito di dio” hanno inviato droni e razzi verso il nord del Paese confinante, mentre vedevano decimati ulteriormente i propri ufficiali e vertici operativi. Gli Usa si aspettano che entro 24 ore Hezbollah offra una risposta alla proposta di tregua inviata a Beirut. La visita di Dermer è servita anche a studiare gli ultimi ritocchi al documento, inserendo garanzie scritte sulla libertà d’azione di Israele contro le minacce fondamentaliste in Libano. L’intento tattico è tenere Hezbollah lontano dal confine e impedirgli di riarmarsi attraverso la Siria. Siria non a caso bombardata nelle roccaforti islamiste proprio nelle ultime ore.

L’intesa fra Stati Uniti e Israele

Al netto di tutte le verità geopolitiche, la propaganda ha imposto annunci in pompa magna di un prossimo cessate il fuoco in Libano. Effetto Trump, diremmo. Durante la sua visita ufficiale a Mar-a-Lago la settimana scorsa, Ron Dermer, ministro degli Affari strategici israeliano, ha detto a Donald Trump e Jared Kushner che lo Stato ebraico si sta affrettando a promuovere un accordo di cessate il fuoco in Libano. Secondo il Washington Post, l’obiettivo tattico di Israele sarebbe garantire una rapida vittoria in politica estera al presidente eletto. “C’è un accordo sul fatto che Israele regalerebbe qualcosa a Trump… che a gennaio ci sarà un accordo sul Libano”, ha riferito un funzionario israeliano.

A livello generale non dobbiamo mai dimenticare che Stati Uniti e Israele non sono semplici alleati. Il secondo è satellite del primo, scoglio strategico per impedire l’ascesa di un egemone nel Medio Oriente. Tanto l’Iran quanto l’Arabia Saudita, divisi per ragioni esistenziali e non posticciamente spirituali (sunniti contro sciiti), e protagonisti di un riavvicinamento diplomatico (anche questo impossibile) che vuole approfittare del momento di transizione americano.

Secondo un’analisi di Axios, lo scopo principale dell’accordo israelo-americano era di far passare messaggi sui piani di Israele per Gaza, Libano e Iran nei prossimi due mesi. Un funzionario statunitense ha evidenzito che Netanyahu ha di fatto lanciato un avvertimento all’amministrazione Biden in merito all’incontro di Mar-a-Lago tra Dermer, Trump e Kushner. In vista del ruolo importante nella politica estera che il genero ed ex consigliere senior del tycoon rivestirà nella prossima amministrazione. L’inviato speciale americano per il Libano, Amos Hochstein, ha dichiarato che “c’è una possibilità” di garantire presto un cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah.

L’Iran non deve morire

Ciò che le parole dei vertici americani nasconde è la linea sussurrata da Trump all’orecchio di Netanyahu: “Sbrigati a fare quello che devi fare”. Tradotto: nei due mesi che ci separano dal primo giorno ufficiale della nuova amministrazione statunitense, Israele deve cercare di centrare gli obiettivi tattici primari nella sua guerra contro le milizie filo-iraniane della Mezzaluna Sciita. Lasciando per ora l’Iran fuori dai giochi e dagli scontri diretti. E viceversa, se è vero (com’è vero) che Teheran ha assicurato che non attaccherà ulteriormente lo Stato ebraico fino al giuramento di Trump come nuovo presidente degli Stati Uniti. Tel Aviv avrebbe così carta quasi bianca per fiaccare almeno Hamas a Gaza, visto che Hezbollah ha dato più filo da torcere del previsto in Libano.

Per rendere efficace tutto questo, la traiettoria strategica trumpiana non deve e non vuole più perseguire il cambio di regime in Iran, quanto piuttosto un inasprimento delle sanzioni economiche. La Repubblica Islamica è infatti un nemico necessario per tenere diviso e governabile il Medio Oriente, coalizzando israeliani e arabi contro la minaccia persiana. Anche perché tanto Washington tanto Tel Aviv già stanno monitorando l’opinione interna iraniana, polarizzandone le sacche critiche nei confronti degli ayatollah. Governo compreso, viste le tensioni manifeste tra vertici religiosi e il presidente Masoud Pezeshkian. I punti di divergenza riguardano, pensa un po’, sopratutto la politica estera. E, dunque, la postura nei confronti dei “nuovi” Stati Uniti d’America del Trump bis. Il cerchio si chiude.

Il piano Kushner torna in vita

Gli Usa provano a riprendere le redini del sempre più instabile Medio Oriente, nel bel mezzo di un momento di stanchezza imperiale e di crisi di credibilità internazionale. La dottrina Trump per quella zona di mondo si fonda ovviamente su una ricetta economicistica, che mantenga intatto il mercato globale minacciato dalle fiamme fondamentaliste nel Mar Rosso, in particolar modo per mano degli Houthi dello Yemen. Il programma “Peace to Prosperity” enunciato dal tycoon nel 2020 giunge al varco della propaganda e dovrà tradursi in un qualche dato di fatto. Nell’ardore del momento, Trump lo definì “l’accordo del secolo”, fondato su quattro pilastri:

  • Israele si prende quasi tutta Gerusalemme e la elegge sua capitale sovrana, mentre ai palestinesi andrebbero i sobborghi della periferia (Abu Dis e dintorni) come loro “capitale”;
  • i palestinesi non ottengono alcun diritto al ritorno nei territori occupati;
  • ridefinizione dei confini, principalmente tra Israele e Cisgiordania;
  • creazione di uno Stato per i palestinesi, che non avrebbero però il controllo delle frontiere, che saranno smilitarizzate.

Nei fatti, il piano trumpiano si basa su quello pensato dal genero Jared Kushner. Parliamo del signore che ha più volte sottolineato le potenzialità immobiliari del “lungomare di Gaza”, in barba a ogni emergenza umanitaria. E difatti il mantra di questo piano è puramente venale: far leva sui cospicui aiuti economici concessi ai palestinesi (decine di miliardi di dollari in progetti di sviluppo e costruzione della nazione) per convincerli a rinunciare a pretese autodeterministe che Israele comunque non accetterebbe mai. La stabilità sarebbe garantita nel segno di Israele, al quale già nel 2017 Trump ha riconosciuto la legittimità di stabilire la capitale a Gerusalemme. In cambio lo Stato ebraico si impegnò nel non espandere i propri insediamenti nei quattro anni successivi oltre il limite prestabilito. Alla scadenza di quell’accordo, nel 2024 ormai agli sgoccioli, abbiamo visto quanto è valso l’impegno israeliano. Ancora una volta la ricetta trumpiana individua una via d’uscita nell’economicismo, serrandosi sulla linea Kushner. Per compensare i palestinesi della frammentazione di Gaza a Cisgiordania e dell’occupazione israeliana, gli Usa sosterrebbero la costruzione di infrastrutture come viadotti e gallerie per ricucire almeno in apparenza la contiguità territoriale. Una linea ad alta velocità attraverso il deserto del Negev avrebbe unito la Striscia alla Cisgiordania, mentre due valichi avrebbero garantito ai palestinesi una via d’accesso diretta alla Giordania, nell’ambito di una zona di libero scambio.

Il tutto con sullo sfondo la normalizzazione fra Israele e monarchie arabe, sublimata negli Accordi di Abramo che l’Iran ambisce a distruggere. Per riuscirci, il sodalizio israelo-statunitense non può archiviare del tutto la causa palestinese, cruciale all’interno del mondo arabo e musulmano. Per questo motivo, la retorica su un futuro Stato palestinese potrà anche perdere slancio di tanto in tanto, ma non scomparirà mai dai discorsi di uomini di governo e organizzazioni internazionali. Il piano Kushner prevede il riconoscimento degli insediamenti come parte integrante della territorialità israeliana, configurando di fatto decine di piccole e deboli enclavi palestinesi in un grande territorio ebraico. Uno spezzatino geopolitico che ha reso definitivamente indigesta l’ormai tramontata soluzione a due Stati.