Europee 2024, exploit dell’estrema destra in Francia e Germania: cosa c’è dietro

Queste elezioni non mostrano un revival dell'ultradestra, ma ne confermano il successo sociale. Ma non tutte le destre sono uguali. I casi di Rassemblement National in Francia e Alternative für Deutschland in Germania

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Ben oltre ogni previsione, le elezioni europee 2024 hanno mandato a gambe all’aria lo status quo, tra gli altri, di due grandi Paesi: Francia e Germania. Nella prima, l’exploit dell’estrema destra del Rassemblement National hanno spinto Macron a sciogliere il governo e a indire nuove elezioni legislative. Nella seconda, motore ingolfato d’Europa, il partito del cancelliere Scholz cade nella polvere della rincorsa ad Alternative für Deutschland.

Dell’ondata, per alcuni il revival, dell’estrema destra nel Vecchio Continente si è parlato in tutti i luoghi e in tutti i laghi. Oltre allo sconvolgimento della guerra in Ucraina e alle conseguenze socio-economiche, dietro il fenomeno c’è altro. E riguarda le dinamiche interne ai singoli Paesi, piuttosto che inconsistenti comunanze di intenti a livello Ue. Dinamiche che, pur essendo puramente nazionali, si ripercuotono anche all’esterno.

Cosa ci dicono i risultati delle destre alle elezioni europee

Cominciamo col dire due cose. La prima è che gli Stati Uniti d’Europa non esistono (e non esisteranno) e che l’Ue non è un soggetto geopolitico: se c’è una cosa che queste elezioni ci hanno detto è che le spinte nazionaliste superano quelle europeiste. La seconda è che non esiste un’etichetta comune: i movimenti di destra nei vari Paesi sono diversi fra loro e rispondono ad agende diverse, senza condividere idee secondo cui AfD sarebbe una sorta di “Lega di Germania”.

Potremmo aggiungere anche una terza considerazione, che parte da una domanda: come mai i giovani della Gen Z hanno scelto di votare partiti di estrema destra, depositari della nostalgia per un passato autoritario lontanissimo da loro e dalla società contemporanea? La risposta è ovviamente complessa, ma c’entra molto il riarmo e l’interventismo per la guerra in Ucraina, perseguiti su spinta degli stanchi Usa. I partiti di destra hanno fatto intuire che saranno loro i prossimi soldati a essere chiamati a combattere non per la loro nazione, ma per qualcun altro. Che non esiste ed è pieno di “avversari”, cioè l’Europa, o che ha ricevuto già fin troppo e complica la situazione di settori chiave come l’agricoltura, cioè l’Ucraina.

L’analisi del fenomeno “revanscista”, termine improprio tra mille virgolette, non deve però trarre in inganno. Nonostante gli ottimi risultati locali delle destre, anche in Italia, dove invece gli altri registrano sonore batoste, il prossimo Parlamento europeo non sarà tanto diverso dal precedente. Anche sommando i seggi ad esempio di AfD e Rassemblement National, l’assetto della maggioranza dell’Emiciclo comunitario non si sposterebbe. Anzi, per assurdo la Francia avrà un peso politico minore a Strasburgo, dove restano preminenti il centrodestra del Partito popolare europeo (formato da Cdu e Repubblicani francesi) e i Socialdemocratici. All’interno del gruppo liberale, dominato dal partito di Macron, si è chiaramente registrato un calo. Tutto ciò non modificherà neanche l’assetto del Consiglio europeo, cioè dell’organo che prende le decisioni più importanti a livello comunitario. La numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, da buona politica ha fiutato in anticipo questo stato di cose, e ha infatti proposto un sodalizio con Giorgia Meloni.

La prossima tappa del dopo elezioni europee è capire come verranno ripartiti gli incarichi all’interno delle istituzioni Ue, a partire dalla guida di Commissione, Consiglio e Parlamento. La prima data da tenere d’occhio è il 17 giugno, giorno del primo vertice dopo il voto nel quale si dovrebbe cominciare a delineare l’assetto della “nuova Europa”. Le decisioni finali dovrebbero arrivare invece a fine mese (27 e 28 giugno). Il tutto con tante incognite sullo sfondo: l’esito delle prossime elezioni in Francia, le istanze delle destre per l’appunto, le nuove ondate di proteste che attraverseranno il Continente e la tenuta della maggioranza Ue composta da conservatori e socialdemocratici. Senza dimenticare la postura nei confronti dell’Ucraina, con la larga maggioranza delle istituzioni europee che resterà a favore del sostegno, come ineffabilmente imposto dagli egemoni Stati Uniti. I quali, non a caso, avevano già spinto la Polonia ad avanguardia d’Europa contro la minaccia russa, che dunque sogna legittimamente di poter contare di più nei palazzi comunitari. E, guarda caso, in uno dei Paesi tradizionalmente più populisti, ha vinto il più moderato centrodestra. Proprio per preservare uno status quo nelle istituzioni Ue, nell’auspicio di orientarne le traiettorie negli interessi polacchi.

In Francia Le Pen trionfa e Macron scioglie il governo

Se lo aspettava, ma non ci avrebbe scommesso. Emmanuel Macron ha dovuto ammettere una sconfitta clamorosa alle europee e a prendere la più clamorosa delle decisioni: sciogliere l’Assemblée Nationale, il Parlamento francese. “Non posso fare come se niente fosse, ho deciso di ridare a voi la scelta sul vostro futuro parlamentare con il voto”. Non era costretto a farlo, ma ha voluto giocare la carta del rispetto della volontà popolare, sperando che valga qualcosa nel voto convocato per il 30 giugno e il 7 luglio. Il presidente francese ha in mente una sua strategia per fermare il Rassemblement National di Marine Le Pen e del 28enne presidente Jordan Barella (di origini italiane), che ha raccolto il 32% dei voti contro il 15% della coalizione di governo Renaissance. La capolista macroniana Valerie Hayer si è fermata al 14,56%, il Partito Socialista di Raphaal Glucksmann al 13,8%. Il Rassemblement National era già arrivato primo in occasione delle europee 2019, ma senza distaccare di molto la coalizione di Macron.

Macron ha tre settimane per tentare di arginare l’avanzata travolgente dell’estrema destra in Francia, nel calcolo tutto da dimostrare che si sia trattato di un “messaggio” collettivo, di un voto di protesta che può essere sovvertito con concessioni e manovre oculate. Difficile, molto difficile. Olivier Faure, leader del Partito Socialista, e Fabien Roussel, dei Comunisti Francesi, hanno invitato la sinistra a formare “un fronte popolare” contro i sovranisti in vista del voto. “Uniti, possiamo vincere”, ha affermato il leader di France Insoumise (Lfi), François Ruffin. Al di là degli inciuci, per dirla come gli antichi, la strategia di Macron dovrebbe finire col rivelarsi per quella che è: “un misto di bluff e auto-persuasione”, come scrive Le Monde. Tattiche giudicate dai francesi molto simili alle recenti trovate comunicative – dibattiti o discorsi che mettono in ombra Macron stesso, l’uso politico della guerra in Ucraina o la storia degli sbarchi alleati – che secondo il quotidiano francese “si sono rivelate tutte controproducenti“. Il rischio più realistico è che, in meno di un mese, la Francia si ritrovi con un primo ministro di estrema destra.

Nuove elezioni e incognita sociale: cosa succederà ora in Francia

Sulla prospettiva di elezioni anticipate getta un’ombra un sondaggio condotto a dicembre 2023, da considerare con le dovute cautele ma che oggi può dirci molto alla luce del verdetto delle europee. Il rilevamento commissionato dai Repubblicani all’istituto Ipsos prometteva al fronte di Le Pen 243 e 305 seggi dell’Assemblea Nazionale, e cioè la maggioranza relativa o addirittura assoluta (fissata a 289 seggi). Questo perché alla base del successo dell’estrema destra ci sono due elementi principali: la protesta contro un’élite conservatrice giudicata troppo europeista e poco attenta agli interessi nazionali e l’insicurezza di ampie porzioni di Paese, lontane dalla cosmopolita Parigi. Insicurezza intesa in senso letterale, come “assenza di sicurezza”. Perché dai sondaggi emerge come gran parte dei francesi percepisca una società “più selvaggia e pericolosa”, in cui uscire di casa può farti finire vittima di un attentato terroristico o di un delitto a opera di stranieri non assimilati.

Quella dell’assimilazione degli immigrati è una delle grandi scommesse perse da Macron, che non è riuscito a rendere “francesi” quelle ampie fette di popolazione che invece calcolava di nazionalizzare. Musulmani compresi, con l’ormai celebre annuncio degli “Imam di Stato”, che avrebbero dovuto instradare i fedeli verso un Islam imperniato sui valori repubblicani francesi. Col risultato che la paura del jihadismo è la più diffusa nel Paese. In questo senso è stata punito anche l’approccio della sinistra social-democratica, che si è allontanata dalle proprie origini social-popolari e dunque dalle istanze dei cittadini, soprattutto dei piccoli Comuni.

La sicurezza è stata infatti l’argomento principe della campagna elettorale d’Oltralpe. L’estrema destra in questo senso ha giocato facile: il tema è un suo quasi-monopolio. L'”ensauvagement de la France”, per usare un’espressione del politologo Jean-Yves Camus, è sotto gli occhi di tutti i francesi da oltre un anno, con le proteste e le ondate di violenza civile inaspritesi dopo la morte 16enne Nahel a Nanterre nel 2023. Già ad aprile 2024, l’Eliseo aveva realizzato una proposta di legge per pene più severe per i minorenni che violano la legge e per i genitori colpevoli di non aver vigilato su di loro. Alcune città, compresa Nizza, hanno introdotto un coprifuoco notturno per i minori di 13 anni. Le scuole sono diventate “bunker” con tanto di tornelli d’ingresso e uscita e videosorveglianza. L’integrazione degli immigrati, soprattutto musulmani dal Nord Africa, sembra essersi inceppata sui tentativi di trasformarla in assimilazione. Le banlieue sono diventate l’anticamera dell’inferno per tantissimi cittadini, a partire dalla chiacchieratissima Saint Denis, alle porte di Parigi, che subirà una trasformazione radicale in vista delle Olimpiadi 2024, con migliaia di immigrati sfrattati e finiti per strada. Il dibattito su tutti questi argomenti è stato vinto dall’estrema destra.

In Germania Scholz perde, ma AfD non è quello che crediamo

Rifuggendo sempre di accomunare la destra di un Paese a quella di un altro, parliamo ora della Germania. Qui l’estrema destra ha raccolto un risultato storico, ma non ha vinto le elezioni: la coalizione Cdu/Csu, il partito di von der Leyen, tiene saldo lo scettro col 30% dei voti. La vera notizia è però il grande risultato di Alternative für Deutschland come seconda forza politica del Paese, a discapito del partito Spd di Olaf Scholz: 15,9% contro 13,9%. In quel 2% passa un mondo tedesco molto diverso da quello che (non) conosciamo. Anche e soprattutto se, come già dichiarato, il cancelliere non ha nessuna intenzione di dimettersi e aprire uno scenario “alla Macron” anche per la Germania.

AfD non è ciò che pensano molti di noi. Non è innanzitutto la faccia tedesca della medaglia a più facce del sovranismo francese e italiano, non è “amico” della Lega di Salvini e del Rassemblement National di Le Pen. Come ben dimostra l’uscita (meglio, l’espulsione) dal gruppo del Parlamento europeo di Identità e Democrazia. Ufficialmente perché il capolista Maximilian Krah ha fatto apologia del nazismo – dicendo che “non tutti i membri delle SS erano criminali” -, concretamente perché il partito tedesco vuole modificare l’assetto dell’Ue attraverso propaganda e incitamento alla violenza sociale e attraverso stretti e oscuri legami con Cina e Russia. Non è un segreto che AfD siano uno dei movimenti politici più “putiniani” d’Europa. La stessa Marine Le Pen ha riconosciuto nell’estremismo di AfD un fattore di rischio, una cifra identitaria lontana da quella della destra francese e comunitaria.

Ma cosa vuole Alternative für Deutschland? Davvero una qualche restaurazione del regime nazista? Decisamente no. Senza negare – ci mancherebbe – la presenza di folti gruppi neonazisti negli ambienti intorno al partito, è molto importante essere consapevoli di cosa chiedono i vertici della formazione politica. Un indizio è dato dalla decisione di questi ultimi di escludere il principale candidato dell’AfD alle elezioni europee, il già citato Krah, dalla futura delegazione del partito all’Europarlamento. AfD è senza dubbio un partito xenofobo, populista, di estrema destra, ma ciò che vuole va oltre la sovrastruttura della narrazione neonazista e riguarda la volontà di governare. Il partito vuole infatti scalzare la guida renano-anseatica e vestfaliana del Paese, di fatto ininterrotta dalla caduta del Muro di Berlino, e spostare l’asse tedesco verso Est, verso il Brandeburgo. Questo perché la Germania non è una nazione, ma una Federazione composta da varie nazioni, tenute insieme e placate nelle loro contese dall’eccellente Stato sociale garantito dal governo centrale. Un welfare finanziato dai proventi dell’export, verso gli altri Stati Ue e Paesi come Cina, dell’enorme surplus commerciale che il Paese produce. La distruzione del Nord Stream e del rapporto diretto con la Russia ha messo in crisi questo sistema, facendo salire nuovamente le tensioni tra i vari popoli che compongono la galassia tedesca.

Alternative für Deutschland incarnano dunque le istanze dei sassoni stanchi del governo gestito dalla parte nord-occidentale del Paese, fin dai tempi di Bonn capitale. Sassoni che ora si sono agganciati anche alla Baviera, secessionista per vocazione esistenziale, uno Stato a parte con una sua Costituzione (antecedente addirittura a quella tedesca federale) e forte del suo primato economico (primo contributore netto dell’Ue). Dalla riunificazione, nessun cancelliere tedesco è mai stato un bavarese, e qualcosa vorrà pur dire. Ora le istanze di sassoni e bavaresi si sono incontrate nel programma di AfD, allo scopo di farla finita con la gestione del potere da parte dei renano-anseatici. Tutto ciò si traduce in un inevitabile anti-europeismo di ascendenza prussiana, ma anche in un sentimento anti-occidentale, dove l’Occidente è inteso come cieco obbediente a Washington in prima istanza e a Bruxelles di riflesso.

Il caso dell’Austria

Per comprendere meglio il fenomeno AfD, può essere utile paragonarlo con il risultato delle europee in Austria, dove l’ultradestra del Partito della libertà (Fpo) è diventata la prima forza politica. Con il 25,5% dei voti, la formazione guidata da Herbert Kickl ha sbaragliato Popolari e Verdi, con implicazioni molto più preoccupanti rispetto al copione tedesco. Sì, perché Fpo ha convinte e dichiarate velleità neonaziste fin dalla fondazione, compiuta da ex membri delle SS all’indomani della Seconda Guerra Mondiale (nel 1956). Velleità mantenute in assoluta continuità nel corso di 70 anni di storia extraparlamentare, avversa a un Paese governato sempre e solo da due partiti ed entrato in crisi soprattutto per il dossier migranti. A quel punto i Popolari hanno dovuto reinventarsi e hanno fatto il patto col diavolo, tirando dentro l’estrema destra.

Così Fpo si è ritrovato una prima volta in Parlamento negli Anni Duemila. Da allora lì sono rimasti, però sempre tenuti a bada come “stampella” dalla maggioranza. Ora, per la prima volta, potrebbe esprimere il cancelliere austriaco. Leggere il programma e le dichiarazioni dei loro vertici fa correre un brivido lungo la schiena. Parlano di “remigrazione”, di deportazione di massa. Un’espressione già sentita anche in ambienti AfD, nel corso di incontri che sarebbero restare segreti con estremisti austriaci. Un programma che prevede l’espulsione di richiedenti asilo, immigrati regolari e cittadini tedeschi di origine straniera ritenuti non abbastanza “assimilati”. E la loro deportazione, per l’appunto. In Germania centinaia di migliaia di persone sono scese in strada dopo la notizia di questi piani segreti, mentre in Austria il programma è stato rivendicato a scopo elettorale. In questo senso, la rielaborazione del nazismo non c’è stata in Germania, che si è sentita vittima del nazismo, mentre in Austria sì. E con orgoglio.