Un trasferimento in una sede aziendale più lontana comporta conseguenze per il lavoratore. Cambiamento di orari, minor tempo con la famiglia e per le attività ricreative e, talvolta anche l’uso dell’auto privata a proprie spese per raggiungere il luogo di lavoro.
La Corte di Cassazione ha recentemente ricordato un principio di grande valore pratico e tale da orientare i rapporti di lavoro con chiarezza: chi viene spostato in un ufficio a decine e decine di km di distanza, con scarsi o difficoltosi collegamenti dei mezzi di trasporto pubblico, può aver diritto a essere risarcito per le spese di spostamento con la propria vettura.
Quella della Suprema Corte è una decisione che abbandona l’idea convenzionale per cui il tragitto casa-lavoro deve essere un mero problema del dipendente, quando alla base c’è, invece, una decisione unilaterale dell’azienda a renderlo una specie di odissea.
Vediamo allora più da vicino la sentenza 18903/2025 e chiariamo perché è importante per i diritti di migliaia di pendolari.
Indice
Trasferito a 50km di distanza: la denuncia
La disputa giunta all’attenzione della Suprema Corte era iniziata con il trasferimento di un medico di una Asl in una diversa sede di lavoro, distante circa 50 km dalla sua casa.
Come emerso dagli atti di causa, il nuovo ufficio si era rivelato difficilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, tanto da causare evidenti rischi di ritardo e violazione dell’orario di lavoro.
Il dipendente trasferito si era così trovato costretto a usare la propria automobile, sopportando usura del mezzo e costi del carburante e variando notevolmente i propri orari.
Ritenendo di aver subito un torto, l’uomo scelse di citare in tribunale il suo datore di lavoro, chiedendo il rimborso chilometrico, ossia l’indennità riconosciuta da un’azienda quando un dipendente usa il proprio veicolo, per ragioni di lavoro.
Al contempo, il medico chiedeva il pagamento del tempo di viaggio come orario di lavoro.
La vicenda non aveva avuto però un esito favorevole nella fase di merito e, conseguentemente, il dipendente aveva deciso di fare ricorso in Cassazione.
L’onere della prova spetta all’azienda
Con la sentenza 18903/2025 la Corte ha dato ragione al lavoratore, invertendo il principio generale dell’onere della prova.
In sostanza, se il capo non riesce a dimostrare l’esistenza di un’alternativa praticabile tramite trasporto con i mezzi pubblici, deve pagare un risarcimento al dipendente, per gli aggravi di costo e i disagi patiti a causa del pendolarismo forzato.
È inversione dell’onere della prova perché, ai fini dell’eventuale ristoro economico, non spetta al lavoratore provare l’impossibilità o l’estrema difficoltà a usare i mezzi di trasporto pubblico locale.
Di solito, invece, in un causa di risarcimento è chi chiede i danni a dover provare di averli subiti, evidenziando la violazione di legge del responsabile, il danno stesso e il collegamento tra i due elementi.
Ecco perché la Cassazione ha ribaltato la decisione del giudice di merito e lo ha fatto non sentenziando sulla quantificazione del danno, ma agendo sul piano tecnico-giuridico, come è previsto nei suoi poteri.
I giudici di piazza Cavour hanno così stabilito un fondamentale principio giurisprudenziale: il lavoratore deve soltanto dimostrare i maggiori costi e tempi di viaggio legati al trasferimento.
È invece l’azienda di volta in volta a dover provare che il dipendente avrebbe potuto, usando l’ordinaria diligenza, evitare o ridurre quel danno (ad esempio dimostrando l’esistenza di soluzioni abitative più vicine o di mezzi di trasporto alternativi e convenienti o il rifiuto di opzioni ragionevoli da parte del dipendente). Altrimenti è costretta a pagare i danni.
Spese di viaggio e rimborso, i confini della risarcibilità
Con riferimento alla richiesta di rimborso chilometrico per l’uso dell’autovettura personale, la Corte ha stabilito che, in questo caso concreto, non è riconoscibile questa indennità, considerato che il Ccnl di riferimento prevede il suo versamento esclusivamente come rimborso per le spese vive, affrontate dal lavoratore per missioni in località differenti da quelle della sede aziendale.
Come accennato, secondo la Cassazione sono invece risarcibili le spese di viaggio. D’altronde, usare più tempo per raggiungere il luogo di lavoro significa rinunciare a parte del tempo dedicato alla vita privata, con possibili conseguenze sul piano dell’equilibrio psico-fisico.
Ecco perché, spiegano i giudici, questo disagio extra non retribuito non può essere preteso dal datore di lavoro come una sorta di sacrificio accettabile, ma va invece adeguatamente controbilanciato sul piano risarcitorio.
Che cosa cambia per i pendolari
Non è di certo la prima volta che la Corte affronta il delicato tema dei trasferimenti (si pensi a una recente sentenza sul mobbing e lo spostamento del lavoratore).
In particolare con la sentenza 18903/2025 la Cassazione ha spiegato che, nel caso di trasferimento in una sede lontana, il dipendente ha diritto a vedersi riconosciuto un risarcimento per le spese di viaggio se è costretto a usare l’auto privata perché lo spostamento con i mezzi pubblici risulterebbe gravoso o impossibile.
Questa sentenza rappresenta un importante richiamo per tutti i datori di lavoro, siano essi pubblici o privati. Disporre il trasferimento di un dipendente non è, infatti, un’azione priva di impatto né esente da obblighi.
Prima di decidere un cambiamento di sede, l’azienda è tenuta a rispettare precisi doveri di correttezza e diligenza, che non si esauriscono in una semplice comunicazione formale.
Conseguentemente, il datore deve o dovrebbe:
- accertare preventivamente la reale possibilità per il dipendente di raggiungere la nuova sede con i mezzi pubblici, tenendo conto non solo dei costi, ma anche dei tempi di percorrenza e dell’eventuale disagio;
- instaurare un dialogo con il lavoratore per valutare insieme eventuali soluzioni praticabili – se l’utilizzo dell’auto privata si palesa come la sola opzione ragionevole, l’azienda diligente e saggia dovrebbe prendere in considerazione misure compensative di tipo economico;
- in caso di controversia, dimostrare con dati oggettivi e concreti la praticabilità delle alternative all’utilizzo del mezzo privato, anche se per la Cassazione non è ammissibile che tutta la responsabilità dell’adattamento ricada soltanto sul dipendente.
Concludendo, la decisione 18903/2025 della Suprema Corte non dispone un diritto generalizzato al rimborso per tutti i lavoratori pendolari, ma ridefinisce un più giusto equilibrio delle responsabilità nei casi di trasferimento. Mancando questo equilibrio, l’azienda si espone a una possibile risarcimento a favore del dipendente.