Stress da superlavoro, quando il capo paga tutti i danni (anche per morte)

La Cassazione stabilisce che il datore di lavoro è responsabile dei danni da stress sul lavoro, fino alla morte. Scopri come funziona l’inversione dell’onere della prova e quando spetta il risarcimento pieno agli eredi

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Dove la legge non chiarisce le regole sui rapporti di lavoro e risarcimenti, interviene la giurisprudenza. L’ordinanza n. 26923 della Cassazione, emessa il 7 ottobre, segna un precedente importante perché affronta la delicata questione dello stress da lavoro e della tutela della salute dei dipendenti.

La pronuncia è significativa perché è di orientamento generale sui risarcimenti conseguenti a gravi problemi di salute, insorti a causa delle condizioni lavorative. Nello specifico caso qui affrontato dalla Corte, è stato stabilito che il datore è obbligato a risarcire pienamente gli eredi di un medico morto d’infarto, quando venga dimostrato che l’evento è stato causato dalla situazione di forte stress patita in reparto.

Ma il vero punto innovativo della pronuncia riguarda la ripartizione dell’onere della prova, che favorisce i familiari di un lavoratore. Vediamo più da vicino.

L’affaticamento cronico, i turni massacranti e la decisione della magistratura impugnata in Cassazione

Il caso riguarda quello di un medico ospedaliero deceduto per infarto, la cui morte era già stata riconosciuta come “causa di servizio” ai fini dell’equo indennizzo per i dipendenti pubblici. Questo riconoscimento è fondamentale: quando viene accertato il collegamento tra attività lavorativa e problema di salute, al dipendente (o ai suoi eredi in caso di decesso) spetta l’equo indennizzo, ovvero un “parizale” risarcimento economico una tantum erogato dall’amministrazione di appartenenza.

Inoltre, come emerso nel corso della disputa giudiziaria, a escludere il peso di altri fattori personali o estranei al lavoro e a rafforzare, invece, il collegamento tra le mansioni svolte e l’evento letale, c’erano:

  • la mancanza di patologie pregresse, tali da giustificare da sole l’infarto;
  • lo svolgimento turni ospedalieri estremamente gravosi e stressanti, documentati nel corso del processo.

Gli eredi reclamavano però una piena tutela risarcitoria, e conseguentemente si sono attivati con un processo civile. Qui però il giudice del lavoro ha respinto le loro richieste, ritenendo che non fosse stata adeguatamente provata la responsabilità del datore. In Cassazione, però, è arrivato il colpo di scena.

La Suprema Corte corregge l’errore del precedente giudice

Presso i giudici di piazza Cavour, le carte del processo sono statte lette in modo assai differente. Per la Suprema Corte, infatti, il ragionamento logico-giuridico nella sentenza impugnata dagli eredi era sbagliato e censurabile, perché – in sostanza – i giudici di merito avevano ignorato gli elementi già riconosciuti e accertati, impedendo una corretta valutazione del comportamento del datore di lavoro.

Vero è che la corte territoriale aveva riconosciuto al medico – o meglio, ai suoi eredi – soltanto il diritto all’equo indennizzo per causa di servizio, ritenendo che questo bastasse a compensare il danno subito. In pratica, i giudici di secondo grado avevano considerato chiusa la questione, sostenendo che – ai fini del risarcimento civile pieno – non fosse stato dimostrato in modo sufficiente il nesso tra le condizioni di lavoro e la morte.

La Cassazione è invece intervenuta per correggere questo errore, spiegando che:

  • il riconoscimento della causa di servizio e la conseguente attribuzione dell’equo indennizzo sono già un forte “indizio probatorio” dell’esistenza di un collegamento causale tra lavoro ed evento dannoso;
  • dopo aver accertato quel nesso, non spetta più al lavoratore (o ai suoi eredi) dimostrare altro.

Il ribaltamento dell’onere della prova

Una volta provato il nesso – chiarisce la Corte – l’onere della prova si inverte. È il datore di lavoro a essere obbligato a dimostrare la propria innocenza o assenza di colpa, altrimenti dovrà pagare i danni in modo pieno. In particolare, egli dovrà provare:

  • di aver adottato, a suo tempo, tutte le misure necessarie a prevenire il danno;
  • che l’evento è dipeso da una causa a lui non riferibile (art. 1218 Codice Civile).

In breve, lo sbaglio giuridico del magistrato è stato quello di sottovalutare la portata del riconoscimento della causa di servizio, trattandolo come una sorta di fatto amministrativo, senza possibili conseguenze risarcitorie piene. Ma a rimetterci davvero sarebbero stati gli eredi, se non si fossero attivati con il ricorso in Cassazione.

Che cosa cambia dopo la decisione della Cassazione

Il principio affermato è chiaro: il datore di lavoro è contrattualmente obbligato a tutelare la salute e l’integrità psicofisica dei dipendenti. Se non dimostra di averlo fatto, risponde civilmente del danno,  non soltanto in caso di eventi drammatici come il decesso, ma anche per problemi di salute non così gravi. In casi come quello analizzato dalla Cassazione, il risarcimento pieno consegue sempre alla colpa od omissione del datore.

Perciò, il riconoscimento dell’equo indennizzo è soltanto una misura amministrativa di tipo compensativo, quasi un preludio al distinto risarcimento civile che – infatti – non sostituisce. Quest’ultimo va a coprire tutti i danni patrimoniali, biologici e morali subiti dal lavoratore (o dai suoi familiari).

La pronuncia della Corte sullo stress da superlavoro – di certo non la prima, come dimostra ad es. quella che ha riconosciuto 100mila euro di risarcimento – segna un cambio di passo. Oltre a correggere la precedente decisione, riafferma il principio di protezione integrale dell’individuo.

È vero che, nel diritto civile, chi chiede un risarcimento deve dimostrare che il danno subito dipenda dal comportamento altrui. Ma, in materia di sicurezza sul lavoro, la Cassazione ribadisce un principio già presente nell’art. 1218 del Codice civile: una volta accertato il nesso tra lavoro e danno, il “peso” ricade sul datore, che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile.

Il lavoro, spiega la Cassazione, ha una dimensione costituzionale non rappresentando soltanto una fonte di reddito, ma anche e soprattutto un’espressione della dignità e libertà dell’essere umano.

Alcuni esempi pratici

La prevenzione dello stress, dei carichi eccessivi e dei turni massacranti non è un optional, bensì un obbligo giuridico. Basti pensare ad es. al caso di un impiegato costretto per anni a svolgere turni di dodici ore senza adeguate pause, che sviluppa una grave forma di ansia cronica e disturbi del sonno; oppure al caso di un operaio addetto alla produzione, obbligato a continui straordinari e in condizioni di forte tensione, tanto da sviluppare una lesione scheletrica o una forma di ipertensione da stress cronico. Ma si pensi anche agli insegnanti, su cui è uscito da poco uno studio, parallelo a un’altra indagine recentissima sullo stress sul lavoro.

In ambo le ipotesi, il ragionamento della Cassazione si applica in modo analogo: una volta provato il nesso tra lavoro e danno, spetta all’azienda dimostrare di aver adottato ogni misura idonea a prevenirlo.

Concludendo, la giurisprudenza afferma un principio generale che rafforza il diritto dei lavoratori – e dei loro familiari – a vedere riconosciuta la responsabilità datoriale, quando il lavoro non è più fonte di realizzazione, ma di sofferenza.