Se il patto di prova è nullo, il lavoratore licenziato torna in azienda

Con la sentenza 24201/2025, la Cassazione chiarisce che, se il patto di prova è nullo, il licenziamento è illegale. Scopri quando il lavoratore ha diritto al reintegro con alcuni casi pratici

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Come è noto, il patto di prova è quella condizione che, a libera scelta delle parti, viene inserita in un contratto di lavoro e per la quale – nella fase iniziale del rapporto – azienda e dipendente valutano la convenienza reciproca a rendere definitivo il rapporto stesso.

In materia, qualche giorno fa è intervenuta la Cassazione con una sentenza – la n. 24201 – che definisce un principio giuridico di portata generale: in sostanza, qualora – in una disputa giudiziaria – venga accertata la nullità di un patto di prova, al dipendente va sempre restituito il lavoro, reintegrandolo in ufficio.

Vediamo insieme, in sintesi, la vicenda che ha portato a questa decisione e chiariamo perché è di estrema importanza, dal punto di vista pratico, per tanti lavoratori alle prime armi e non solo.

L’impugnazione del recesso per mancato superamento del periodo di prova

Una dipendente con la categoria di quadro aveva impugnato in tribunale il licenziamento inflittogli dalla società datrice, per mancato superamento del periodo di prova. In primo grado, il giudice del lavoro respinse la sua richiesta di accertamento di nullità del relativo patto di sei mesi, sottoscritto contestualmente alla firma del contratto. In particolare, la donna sosteneva che questo accordo fosse nullo per mancata specificazione delle mansioni oggetto di valutazione.

La donna decise di impugnare la sentenza in appello e qui l’esito fu ribaltato, perché il giudice di secondo grado, accertata la genericità delle mansioni, dichiarò nullo il patto di prova, annullò il licenziamento con reintegra e dispose la regolarizzazione contributiva previdenziale e assistenziale. Al contempo, a favore della lavoratrice licenziata, ammise una compensazione economica con indennità da quantificarsi in separata sede (che poi assunse la forma di indennità sostitutiva della reintegra).

Al negativo esito dell’appello, la società decise di fare ricorso in Cassazione.

Patto nullo e reintegro del dipendente, la Cassazione chiarisce

Nulla è cambiato nell’esito della disputa presso la Corte di Cassazione. Infatti, i giudici di piazza Cavour hanno spiegato che:

  • il mancato superamento di una prova che non c’è mai stata, perché nulla alla radice, è una chiara ipotesi di mancanza del fatto materiale. In sostanza, non sussiste il fatto che si ritiene posto a giustificazione del licenziamento;
  • dopo la sentenza della Consulta n. 128/2024, la conseguente tutela da applicare sarà quella del reintegro (in forma attenuata) in azienda, stante l’applicazione della disciplina limitativa e garantistica in materia di recesso unilaterale del datore (Cass. 17921/2016).

In particolare, citando la sentenza n. 128/2024 della Corte costituzionale, la Cassazione ha chiarito che, in casi come questo, non vale la mera tutela indennitaria di cui al d. lgs. 23/2015, art. 3, comma primo (tutele crescenti), ma la tutela reintegratoria in forma attenuata (art. 3, comma 2), già disposta per le situazioni di mancanza del fatto materiale.

La solida giurisprudenza sulla nullità del patto di prova

La giurisprudenza in materia segue un indirizzo costante che, con la suddetta pronuncia della Consulta, ha trovato la definitiva “consacrazione” nel nome della tutela dei lavoratori. Se il patto di prova è accertato nullo, il rapporto è considerato a tempo indeterminato fin dall’origine (Cass. 21698/2006) e il recesso datoriale è considerato licenziamento senza giustificazione, con conseguente diritto del lavoratore a riprendersi il posto.

Infatti, la trasformazione dell’assunzione da condizionata a definitiva comporta il venir meno del regime di libero recesso, menzionato dalla legge 604/1966 (Cass. 16214/2016), ed è aderente al dettato del d. lgs. 23/2015, attuativo del Jobs Act.

Non solo. Nella sentenza n. 24201 di pochi giorni fa, la Corte di Cassazione – richiamando altre pronunce sullo stesso tema (Cass. 25/1995, 5591/2001, 21758/2010 e 17045/2005) – ha ribadito che, in ipotesi di nullità “alla fonte” del patto di prova contenuto nel contratto individuale, come ad es. la mancata stipula dello stesso per iscritto in epoca precedente o almeno contestuale al rapporto, oppure in caso di mancata specificazione delle mansioni da svolgersi, la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo del licenziamento e non si sottrae alla disciplina tutelante dei licenziamenti nel lavoro subordinato.

Che cosa cambia

Con la sentenza 24201/2025, i giudici di piazza Cavour hanno ricordato qual è il perimetro della tutela spettante al dipendente, qualora sia dimostrata o emerga in corso di causa la nullità del patto di prova. Questa pronuncia ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale culminata con la menzionata decisione della Corte Costituzionale che, in qualità di “approdo” per la tutela dei diritti dei lavoratori, ha rivisto l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria per i casi di licenziamento illegittimo.

Gli esempi pratici di casi come quello qui trattato dalla Corte sono innumerevoli. Si pensi ad es. a quell’azienda che assume un operaio con un accordo verbale che prevede genericamente un “periodo di prova” di due mesi. Dopo qualche settimana, il datore di lavoro lo licenzia sostenendo che non ha superato la prova. In sede giudiziaria, il patto viene dichiarato nullo perché non stipulato per iscritto: il licenziamento è illegittimo e l’operaio ha diritto al reintegro.

Un altro esempio pratico ricorrente è quello del patto di prova nullo, perché firmato dopo l’inizio del rapporto. Si pensi alla commessa che inizia a lavorare in un negozio il primo giugno e, solo dopo due settimane, le viene chiesto di firmare un contratto che contiene anche un patto di prova di tre mesi. Dopo un mese, viene licenziata per non aver superato il test sul campo. Il giudice, accertata la nullità del patto (che deve essere firmato contestualmente o prima dell’assunzione), dichiara il licenziamento privo di giustificazione. La dipendente va reintegrata. In un altro recente caso, un dipendente ha ottenuto un risarcimento per aver svolto mansioni diverse durante la prova.

Concludendo, in situazioni come queste, al dipendente deve essere consentito di riprendersi il posto, perché la nullità del patto di prova rappresenta una ipotesi di licenziamento ingiustificato, per insussistenza del fatto.